domenica 29 gennaio 2017

Alastair Crooke - Gli ostacoli ai piani per la "crescita" di Donald Trump



Da Consortium News, 21 novembre 2016


Con ogni evidenza siamo giunti ad un punto di svolta. Il presidente eletto Trump vuole imporre drastici mutamenti di rotta ha percorso del suo paese. Il suo grido di battaglia che vuole una "AmeriKKKa di nuovo grande" evoca, e quasi certamente è fatto apposta per evocare, l'epica espansione economica ameriKKKana del XIX e del XX secolo.
Trump vuole invertire la rotta della delocalizzazione del lavoro americano; vuol far rivivere la base industriale del paese; vuole ridiscutere i termini del commercio internazionale; vuole la crescita; vuole posti di lavoro negli Stati Uniti, e vuole imporre una virata di centoottanta gradi alla politica estera ameriKKKana.
Così come si presenta si tratta di un'agenda piuttosto lodevole. Molti ameriKKKani desiderano proprio questo, ed il periodo di transizione in cui ci troviamo attualmente, in cui dettano legge l'evanescenza globale e la ricerca della crescita (qualunque cosa si intenda indicare con questo vocabolo) richiede veramente un approccio all'economia diverso da quello seguito negli ultimi decenni.
Raúl Ilargi Meijer ha affermato con perspicacia che una più grande autonomia
rappresenta il futuro del mondo, il mondo del dopo crescita e del dopo globalizzazione. Ogni paese ed ogni società ha bisogno di concentrarsi sulla autonomia, intesa non come una idealistica scelta di lusso, ma come una necessità. Non è una cosa cattiva o terribile come qualcuno vorrebbe che si credesse, e non è la fine del mondo... Non si tratta di una transizione idealizzata verso l'autosufficienza; è semplicemente e inevitabilmente l'unica cosa rimasta dopo che una crescita smodata ha finita col deragliare...
L'intera nostra visione del mondo e le nostre filosofie sono basate sul sempre di più e sul sempre più grande, e le nostre economie si basano per intero su questi concetti. Questo ci ha già resi incapaci di riconoscere il fatto che i nostri veri mercati sono in declino già da molti anni. Noi ci concentriamo sui dati dei mercati borsistici e così via, ed ignoriamo la rovina dei cuori pulsanti della nostra economia, le regioni ignorate dalle grandi rotte...
Donald Trump sembra proprio l'incastro adatto a questa transizione... Quello che importa [qui] è che egli promette di riportare il lavoro in AmeriKKKa ed è di questo che il paese ha bisogno... Non perché si possano esportare i nostri prodotti ma perché li si possa consumare qui, e venderli sul mercato interno... Non c'è nulla di sbagliato o di negativo se un ameriKKKano compra prodotti fabbricati in AmeriKKKa invece che in Cina. Non c'è nulla di sbagliato economicamente -e tantomeno moralmente- se le persone producono i beni cose di cui loro, le loro famiglie e i loro vicini desiderano e necessitano senza che questi debbano girare per mezzo mondo per un magro profitto. Almeno, non per l'uomo della strada. Non si tratta di una minaccia alla nostra 'società aperta' come vanno dicendo in molti. Questa apertura non dipende dal fatto che nei nostri negozi arrivano merci da oltre mille miglia lontano quando potremmo produrle noi stessi con grande beneficio per la nostra economia. La società aperta è una condizione mentale, che sia collettiva o personale. Non è un qualche cosa che si può vendere.
Sembra che il grande desiderio di Trump sia proprio questo. Non si tratta di una cosa priva di meriti, ma le cose sono cambiate: l'AmeriKKKa non è più quella che era nel XIX nel XX secolo, né in termini di risorse naturali da sfruttare né dal punto di vista sociale. E neanche il resto del mondo rimasto lo stesso. Il signor Trump, purtroppo per lui, può trovarsi a dover constatare che il suo compito principale non sarà la gestione di questo grande cambiamento di rotta, ma, più prosaicamente, il dover affrontare i venti tempestosi che si troverà davanti appena prenderà in mano il timone dell'economia.
In altre parole c'è la concreta possibilità che il suo ambizioso programma di riplasmare l'economia venga prematuramente inficiato dalla crisi finanziaria.
I venti di tempesta non sarà lui a suscitarli, e per la maggior parte sono di per sé oltre la possibilità di controllo da parte dell'uomo. Sono strutturali e sono molteplici. Essi rappresentano il risultato cumulativo della dottrina monetaria fin qui seguita, che caccerà il presidente eletto in un angolo ristretto. Qualunque percorso cercherà per uscirne, implicherà comunque degli effetti collaterali. Lo stesso vale per chiunque cerchi di imporre una rotta ad una qualunque nave statale nel mare dell'economia globale contemporanea. Paradossalmente, in un'epoca che si muove verso un maggior livello di autosufficienza, qualunque successo Trump possa conseguire non dipenderà dall'essere autonomi nella misura in cui gli piacerebbe. La sua politica estera in merito a questo cambiamento dipenderà dal trovare un terreno di interessi comuni con il signor Putin, e questo non dovrebbe essere troppo difficile; per gli aspetti economici invece questa virata dipenderà dalla abilità con cui Trump riuscirà a non mettersi a tu per tu con la Cina e a trovare un qualche modus vivendi con il Presidente Xi, e questo è meno facile.
"Le cose non sono più come prima". La teoria della complessità ciu dice che cercare di ripetere qualche cosa che una volta ha funzionato, in condizioni molto differenti, probabilmente non funzionerà in una successiva ripetizione. Nell'epoca di Clinton per esempio l'85% della crescita della popolazione statunitense derivava dalla parte della popolazione attiva. Il vento contrario che Trump dovrà affrontare è rappresentato dal fatto che per i prossimi otto anni l'80% della crescita della popolazione comprenderà gli ultra sessantacinquenni. E gli ultra sessantacinquenni non sono un buon motore per la crescita economica. Non si tratta di un problema esclusivamente americano; è anche una tendenza mondiale.
Secondo il blog Econimica "il picco di crescita nella popolazione attiva combinata (quella tra i quindici e i sessantaquattro anni) tra tutti i trentacinque paesi ricchi della OECD, il Brasile e la Russia è crollato dopo aver raggiunto il massimo nel 1981. La crescita annuale della popolazione attiva in questi paesi è crollato dai ventinove milioni annui in più ogni anno al milione scarso del 2016... ma da ora in avanti la popolazione attiva declinerà ogni anno.... Questi paesi rappresentano quasi i tre quarti della domanda mondiale di petrolio e beni esportati in generale. La loro popolazione attiva tuttavia continuerà a diminuire anno dopo anno da ora in poi, sicuramente per alcuni decenni e poi mentre per un tempo più lungo. La domanda globale di beni di quasi ogni genere è destinata a risentirne.

 (FFRindica il Federal Funds Rate: il tasso di interesse base negli USA)
Fonte: http://econimica.blogspot.it/2016/11/trump-lies-no-different-than-obama-or.html

Poi c'è la Cina. Anch'essa sta passando una difficile transizione dalla vecchia economia ad un'economia innovativa. Anch'essa a una popolazione che sta invecchiando ed un problema di debito, con un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sta arrivando a 247%. Trump pensa che la Cina stia tenendo deliberatamente basso il valore della sua valuta per accaparrarsi un indebito vantaggio commerciale e pensa anche di mettersi a tu per tu con il governo cinese su questa fondamentale questione.
Anche questo caso Trump ha ragione in parte, perché molti paesi stanno manipolando i loro tassi di cambio proprio per cercare di rubare un po' di crescita extra dal totale mondiale che sta diminuendo. Solo che, come si nota qui
Quello che in questo caso va bene per gli Stati Uniti [si tratta della salita del dollaro e dei tassi di interessi sulla scia delle anticipazioni della politica economica di Trump] non va bene invece per i mercati emergenti i mercati emergenti traggono benefici da un dollaro più debole, e non è questa la situazione verso cui stiamo andando. I mercati emergenti traggono beneficio dal fatto che il flusso globale dei capitali si muova nella loro direzione, e neppure questo sta succedendo. A febbraio i mercati emergenti erano in spiccato declino, un declino guidato da (1) un dollaro forte, dal (2) risalire dei tassi di interesse negli Stati Uniti e (3) dal rallentare della crescita cinese. Poi la Cina ha stimolato massicciamente il credito, la Fed è diventata sfrenatamente conciliante ed il dollaro è declinato rapidamente.
Nel corso dell'anno i tassi di interesse sono crollati. Una crescente quantità di dollari, euro e yen liquidi, alla ricerca di guadagni accettabili, è stata diretta sui mercati emergenti. Trump ha stimolato nuovamente la crescita del dollaro, ed il suo stimolo fiscale spingerà più in alto i tassi di interesse. Questo ha rovesciato il processo. [I dollari stanno rientrando]
ovviamente quelli di Pechino non vogliono trovarsi materialmente deboli in occasione del congresso del partito il prossimo autunno. Al momento però l'impulso che deriva dallo stimolo cinese del primo quadrimestre dell'anno ha quasi raggiunto il suo massimo.
In breve, Peters sta dicendo che con l'apprezzamento del dollaro e in un ambiente che facilita la risalita dei tassi di interesse, la crescita dei mercati emergenti nel loro complesso si indebolirà, dal momento che essi dipendevano dalla crescita cinese. Una volta essi erano solitamente legati alla crescita statunitense, ma oggi è la Cina che domina i loro flussi commerciali. Questo significa che se la Cina non cresce a risentirne sono i mercati emergenti. Il problema è questo: l'America può riprendere a crescere mentre la Cina ed i mercati emergenti ristagnano? Si tratta di un altro mutamento strutturale laddove fino ad oggi accadeva il contrario: se gli Stati Uniti non crescevano i mercati emergenti e la Cina ristagnavano. Adesso succede l'opposto.
Esistono altri mutamenti strutturali ovviamente che renderanno più difficile per le economie deindustrializzate dell'Occidente ricreare velocemente i posti di lavoro delocalizzati a suo tempo. In primo luogo l'innovazione e la tecnologia sono scivolate in modo sistemico verso est, spesso in direzione di una forza lavoro più competente e meglio istruita. Questo costituisce non soltanto un evento economico, ma anche una ridistribuzione del potere. In ogni caso, la tecnologia in questa nuova epoca distrugge posti di lavoro più che crearne.
In un certo senso il piano economico di Trump per portare di nuovo l'America al lavoro attraverso grossi progetti infrastrutturali finanziati col debito si ispira all'epoca di Reagan, che è stato anche un periodo di dollaro forte. Ma anche in questo caso "Le cose oggi non stanno come stavano a quei tempi". All'epoca l'inflazione era al 13%, i tassi di interesse attorno al 20%, e soprattutto il rapporto tra debito e prodotto interno lordo negli Stati Uniti era solo del 35%.
All'epoca, come ha suggerito Jack Richards, il dollaro forte veniva deliberatamente lasciato alla deflazione e i tassi di interesse non potevano fare altro che scendere. Si era all'inizio di tre decenni di boom per i titoli di Stato, un trentennio finalmente giunto a conclusione in coincidenza con l'elezione di Trump. Oggi l'inflazione non può far altro che salire, al pari dei tassi di interesse, ed il mercato dei titoli di Stato non può che scendere. In modo pericoloso.
Trump in queste condizioni può far crescere l'economia e i posti di lavoro spendendo nelle infrastrutture? Beh, il vocabolo crescita è ambiguo e mutevole. Il grafico a sinistra qui sotto "mostra entrambi i lati dell'equazione... La crescita annua del prodotto interno lordo e la crescita annua del debito federale si sono verificate in concorso per costituire la cosiddetta crescita. Il secondo grafico a destra mostra il prodotto interno lordo annuale, una volta sottratta la crescita annuale del debito federale contratto per arrivare proprio a quella crescita del prodotto interno lordo." In altre parole a differenza di quanto succedeva agli inizi dell'epoca di Reagan, negli ultimi anni il debito non produce alcuna crescita, ma per lo più solo altro debito.

 Fonte: http://econimica.blogspot.it/2016/11/trump-lies-no-different-than-obama-or.html

Di fatto il secondo grafico non fa che rispecchiare la diluizione del potere d'acquisto di cui è responsabile la stampa di nuova moneta. Il potere d'acquisto diminuisce per il consumatore ameriKKKano e, tramite l'intermediazione del settore finanziario, passa ad altre entità che sono per lo più organizzazioni finanziarie e società che riacquistano proprie quote. Si tratta della deflazione del debito: il consumatore ameriKKKano finisce per disporre di meno ricchezza e di meno potere d'acquisto, inteso come residuo di reddito spendibile a discrezione.
Il punto è che la "crescita" sta diventando ovunque un fenomeno più raro. Anche la Russia e la Cina, come tutti gli altri, sono in cerca di nuove fonti di crescita.
Il debito è proprio il diavolo che può mettere la coda in tutti i calcoli di Trump. un "piano di miglioramento infrastrutturale da mille miliardi di dollari, unito alla sua proposta di ricostruire le forze armate farà crescere in maniera significativa il deficit annuale, almeno nel breve termine. Di fatto il deficit sta già salendo: l'ammanco per l'anno fiscale 2016 è passato a 587 miliardi dai 438 dell'anno prima. Un aumento del 34%... Inoltre, le politiche protezioniste di Trump comporterebbero un dazio del 35% su determinate importazioni o imporrebbero la produzione degli stessi beni all'interno degli USA a prezzi molto più alti. Ad esempio, l'aumento nel costo del lavoro per i beni prodotti in Cina sarebbe del 190%, tenuto presente il salario minimo reso obbligatorio dalla legge federale che tocca al lavoratore negli Stati Uniti. Di qui la crescita dell'inflazione." Insomma, l'autosufficienza impilca costi interni più alti e l'aumento dei prezzi per i consumatori.
Il debito crescerà. E pare sia già in atto uno sciopero dei compratori contro il debito di stato degli USA: ben più di un terzo su un totale di mille miliardi di dollari di buoni del tesoro era già stato venduto dalle banche centrali straniere fino al 31 agosto del 2016.

Fonte: http://www.zerohedge.com/news/2016-11-16/saudis-china-dump-treasuries-foreign-central-banks-liquidate-record-375-billion-us-p 

...E chi è che li sta comprando? Il grafico mostra l'andamento degli acquisti, in percentuale del debito totale per cui il Tesoro ha fatto delle emissioni. Le banche centrali straniere sono scomparse. I cinesi non comprano più buoni del tesoro statunitensi dal 2011.

In alto, chi ha acquistato il debito messo in commercio, in percentuale e per periodo.
Fonte: http://econimica.blogspot.it/2016/11/trump-lies-no-different-than-obama-or.html

A comprare è il pubblico statunitense. Il pubblico statunitense sarà disposto a reggere i mille miliardi di spesa pazza di Trump per le infrastrutture? O il denaro necessario verrà stampato, diluendo ulteriormente il potere d'acquisto del consumatore ameriKKKano? La trasformazione di questa infatuazione per le infrastrutture in un aumento della crescita economica sta in gran parte in questa risposta. Ovviamente, in borsa le imprese di costruzioni andranno bene.
Morale della favola, secondo Michael Pento:
Se i tassi di interesse continuano a salire non sarà solo il prezzo dei buoni del tesoro a collassare. La stessa sorte toccherà ad ogni valore mobiliare cui è assegnato un valore al di fuori del cosiddetto "tasso di ritorno privo di rischio" offerto dal debito sovrano. Si imparerà allora la dolorosa lezione che l'aver mantenuto per gli scorsi novanta mesi una politica di tassi a zero non era iniziativa del tutto priva di rischi. I tassi di interessi negativi hanno causato una vistosa distorsione nel prezzo di molti asset, tra i quali il debito societario, i buoni emessi dalle amministrazioni locali, i fondi di investimento immobiliari, le obbligazioni per anticipo sui crediti, i valori di borsa, le merci, le auto di lusso, le opere d'arte, tutto quanto produce un reddito fisso e quanto dipende da essi, e tutto quello che c'è in mezzo; tutte cose che crolleranno tutte insieme con l'economia globale.
Normalizzare il tasso di rendimento dei titoli di stato farebbe molto bene all'economia nel lungo termine perché è necessario comporre in qualche modo i grossi squilibri economici oggi esistenti. Invece, il Presidente Trump non vuole sentir parlare della depressione che arriverà con il crollo del settore immobiliare, delle borse e del prezzo dei titoli di stato.
A dire il vero, per tutta la durata della sua campagna elettorale Trump non ha fatto che ripetere che chiunque avesse vinto le elezioni avrebbe dovuto affrontare una crisi finanziaria già al momento della salita in carica, a gennaio. Magari non si troverà ad affrontare i "violenti venti contrari" del quantitative easing e della bolla dei titoli di stato, come certi esperti hanno predetto, ma molti altri, secondo una ricerca condotta dalla Bank of AmeriKKKa su 177 gestori di fondi che controllano titoli per poco meno di mille miliardi di dollari, si attendono "un crollo dei titoli di stato dovuto a stagflazione".
Tutto questo ha implicazioni politiche di vasta portata. Trump si sta preparando, nientemeno, a cambiare completamente l'economia e la politica estera statunitensi e lo sta facendo mentre molti dei seguaci delle élite liberali sono così adirati per il risultato delle consultazioni da rifiutare completamente la sua legittimazione. E con le stesse élite rimaste impietrite davanti a questo rifiuto del processo democratico statunitense. Si stanno organizzando movimenti per indebolire la sua presidenza (si veda ad esempio qui). Se Trump si troverà ad affrontare una situazione finanziaria tempestosa intanto che in patria imperversano rabbia e disordini, le cose potrebbero mettersi piuttosto male.

mercoledì 25 gennaio 2017

Joshua Landis - Il cataclisma della guerra civile siriana: il successo iraniano e russo, il fallimento ameriKKKano




Joshua Landis intervistato da John Judis per TalkingPointsMemo.com. Intervista pubblicata il 10 gennaio 2017.

Joshua Landis presiede il Centro Studi Mediorientali all'Università dello Oklahoma e scrive per l'autorevole blog Syria Comment. Probabilmente è il più importante esperto statunitense di questioni siriane. E' stato spesso nel giusto nel prevedere gli eventi degli ultimi cinque anni. Mentre la maggior parte di quanti dettavano la linea politica di Washington prevedevano la caduta del Presidente siriano Bashar al Assad, Landis affermava che sarebbe rimasto al potere. Liberali e conservatori invocavano un intervento militare in Siria per cacciare Assad, e Landis invece raccomandava prudenza. In questa intervista esprime delle valutazioni sulla politica dell'amministrazione Obama in Siria e sulle prospettive della nuova amministrazione Trump in un momento in cui la Russia e l'Iran consolidano la propria presa sul quadrante settentrionale del Medio Oriente. A mio modo di vedere si tratta della più chiara e più completa analisi sui motivi che hanno condotto la politica statunitense in Siria al fallimento e su quello che gli Stati Uniti dovrebbero fare adesso (John Judis).

Judis: Che giudizio dà dell'intervento dell'amministrazione Obama in Siria? Com'è andato? Si è trattato di un successo o di un fallimento?
Landis: Io penso che sotto un aspetto importante si sia trattato di un successo. Obama è riuscito a reggere il freno e resistere a quello che ha definito il copione delle conventicole della politica estera di Washington, che è quello di farsi risucchiare dalle guerre civili della regione. Gli Stati Uniti non potevano in nessun modo risolvere il problema siriano con risultati costruttivi, e il fatto che sia stato possibile lasciarli fuori nella misura in cui ci è riuscito Obama è di per sé un ottimo risultato.
Tutti volevano che fossimo noi a risolvere i problemi che avevano con la Siria, che si trattasse del Libano, dello stato sionista, della Turchia o dell'irata, perché non avevano idea di come fare a risolverlo di propria iniziativa. L'Arabia Saudita e i paesi del Golfo avevano tutti un'idea propria di chi avremmo dovuto aiutare e di come sarebbe dovuta essere la Siria così come sarebbe uscita dall'altro lato del tritacarne. Se anche gli Stati Uniti vi si fossero infilati non è che ne sarebbe venuta fuori una macinata migliore. Abbiamo visto che rovesciarne il governo non si è rivelata una buona idea.

Obama invoca il rovesciamento del governo
J.: Ma Obama in effetti è intervenuto. Nel 2011 invitò il presidente siriano Bashar al Assad a fare un passo indietro. Il fatto di aver rilasciato una simile affermazione impegnava gli Stati Uniti a muoversi in qualche modo?
L.: Sì, ed è stato un errore. La dichiarazione di Obama secondo cui Bashar al Assad doveva farsi da parte era una aspirazione generica. Obama non ha mai inteso impegnare l'America affinché si arrivasse a tanto. È facile capire perché l'abbia detto; tutto il mondo aveva gli occhi puntati sull'America durante i primi giorni della primavera araba per vedere come si sarebbe comportata politicamente. L'America non sapeva quale significato attribuire alla primavera araba. Sia i mass media che i mezzibusti occidentali sia gli attivisti arabi del Medio Oriente avevano convinto il mondo occidentale che la primavera araba era una lotta per la democrazia. Andavano dicendo che era come il 1848, che era come 1968 a Parigi[1], che era come la caduta del comunismo nel 1990. Potremmo andare a lungo avanti con le metafore. I giornalisti si attaccavano ad ogni metafora e ad ogni episodio paragonabile nella storia occidentale per dimostrare che il popolo arabo si stava finalmente sollevando contro i cattivi governanti chiedendo democrazia e chiedendo di essere più simile all'Occidente. Nel suo interessante testo del 1991 intitolato La terza ondata Samuel Huntington sosteneva che il mondo moderno ha conosciuto tre momenti di liberalizzazione e di democratizzazione. Gli osservatori occidentali e i liberali arabi speravano allo stesso modo che la sollevazione, dal loro considerata una primavera, confermasse le loro aspettative e annunciasse una quarta ondata. L'unico problema è che le sollevazioni nei paesi arabi non tendevano in prima istanza alla democrazia e neppure al liberalismo. Da richiesta di democrazia non aveva un ruolo centrale nelle richieste invocate dagli slogan dei manifestanti. Dignità, in arabo qarama e libertà, o hurriya, erano le consegne fondamentali usate dalla Tunisia fino alla Siria; così c'erano slogan del tipo "abbasso il governo" o "Bashar vattene". I manifestanti concordavano all'unanimità nel fatto che volevano sbarazzarsi dei dittatori oppressivi e corrotti che li governavano. Il bello di queste richieste generiche era che gli islamici, che volevano il califfato o la legge sacra, potevano appropriarsene con la stessa prontezza dei liberali che condividevano i valori occidentali.
J.: ricordo il discorso di Obama al Dipartimento di Stato nel maggio del 2011, quando esaltò la primavera araba e disse: "la politica degli Stati Uniti... Sarà quella di sostenere i processi di transizione verso la democrazia".
L.: [L'amministrazione Obama] Prese per buona l'idea che avrebbe dovuto impegnarsi nel rovesciamento dei governi per aiutare questi movimenti democratici ad avere successo. Il problema è che non si trattava di un movimento per la democrazia. Era un movimento per il cambiamento. La gente invocava dignità, ma si trattava di un moto molto disorganizzato e caotico. Il guaio è che nei paesi arabi una volta che si distrugge la fragilissima struttura statale messa in piedi dopo la prima guerra mondiale e dopo lo smantellamento dell'impero ottomano non è che salta fuori una versione locale del George Washington che tiene insieme le tredici colonie. Saltano fuori la frammentazione e un mucchio di signori della guerra e di emiri. Il nazionalismo non fornisce un'identità abbastanza forte da tenere insieme il popolo della Libia dello Yemen della Siria o dell'Iraq. Se è per questo non va bene neppure per il popolo della Palestina. Si sono affermati invece in mezzo alla popolazione di ciascun paese identità di livello inferiore e superiore a quello nazionale che hanno indebolito il sentimento nazionale comune. La lealtà verso il clan, verso il villaggio, verso la regione, verso il gruppo tribale e verso la religione hanno tormentato le sollevazioni nei paesi arabi. Ecco per quale motivo il movimento di opposizione in Libia o in Siria si è tanto frammentato. Ecco perché in Siria si sono formate migliaia di milizie. Gli Stati Uniti non avevano alcun potere per unificarle. Si tratta dello stesso fenomeno che l'AmeriKKKa ha dovuto affrontare in Iraq dopo aver distrutto il governo di Saddam. La stessa cosa successe in Libia. In Libia i politici occidentali pensavano che l'opposizione fosse sufficientemente unita da permetterci di far pendere la bilancia dalla loro parte. Sulla base di questo falso assunto abbiamo convinto noi il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a dichiarare che le forze di opposizione erano il legittimo governo del paese e a reindirizzare tutto il denaro che era appartenuto allo stato di Gheddafi verso l'opposizione libica. Ovviamente l'opposizione non era affatto unita. Eravamo noi che volevamo che lo fosse. Fu tutta propaganda. La stessa propaganda con cui abbiamo perso in Iraq con Ahmed Chalabi.
J.: Insomma, nella misura in cui considerava che il ruolo dell'AmeriKKKa in Medio Oriente fosse quello di promuovere la democrazia di rovesciamento dei governi, l'amministrazione Obama ha continuato a comportarsi come si era comportata quella di George W. Bush.
L.: La democrazia è la nostra regione nazionale. Quando ci troviamo davanti ad un dubbio ci rifacciamo ai punti fondamentali della nostra democrazia, e questo è quello che Obama ha fatto. È una questione di fede. Non aveva idea di cosa diavolo stesse succedendo in Siria. Mi invitarono a partecipare a un sacco di confabulazioni della CIA e di ottimistiche pianificazioni politiche nei primi mesi dell'insurrezione. Tutti quanti nei servizi pensavano che Assad sarebbe caduto rapidamente. Erano tutti fuori di testa. Ciascuno stava soltanto proiettando sull'insurrezione i propri interessi e le proprie teorie preferite. Era ovvio che le nostre aspettative avrebbero surclassato ogni analisi basata su dati concreti. Non potevamo contare su molti dati di fatto. La situazione stava evolvendo rapidamente. Ci trovavamo davanti al cambiamenti senza precedenti, così fu facile restare invischiati ad immaginare ogni sorta di trasformazione. Obama risentì anche della pressione di gruppi di interesse interni al paese e di paesi alleati del Medio Oriente affinché risolvesse subito la questione della caduta di Assad. In Egitto Obama era stato criticato per aver sostenuto Mubarak fino all'ultimo secondo; non voleva fare lo stesso errore in Siria, e non doveva farlo. A differenza dell'Egitto la Siria è sempre stata una spina nel fianco dell'AmeriKKKa ed è stata un nemico fin dai tempi in cui si è opposta alla decisione degli Stati Uniti di sostenere la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Per questo Washington ha sostenuto vari colpi di stato in Siria dopo il 1949. Quando due tentativi di colpo di stato uno di seguito all'altro fallirono nel 1956 nel 1957, Damasco si rivolse decisamente verso la sfera di influenza di Mosca, e non ha più cambiato orientamento. L'esercito siriano è per intero armato ed addestrato dalla Russia. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Siria fin dagli anni Settanta. Da parte sua la Siria ha sempre sostenuto i nemici dell'AmeriKKKa: Hezbollah, i vari gruppi palestinesi, la Repubblica Islamica dell'Iran. Come se tutto questo non bastasse Assad si è attivamente opposto all'occupazione ameriKKKana dell'Iraq. Tutte ragioni per cui la pretesa di Obama di pretendere che Assad si facesse da parte era una bagatella.
Il problema era che nessuno a Washington aveva un'autentica comprensione dell'opposizione siriana non si poteva indicare un solo gruppo di opposizione che avesse un qualche sostegno all'interno del paese. C'erano un sacco di manifestazioni e molta gente che chiedeva con vigore che le cose cambiassero, ma Assad controllava ancora l'esercito, l'aeronautica e i servizi, i cui ranghi superiori erano zeppi di simpatizzanti che non lo avrebbero abbandonato. Assad ha a disposizione un sacco di risorse e da la determinazione necessaria a utilizzarle. C'erano molte ragioni per pensare che sarebbe sopravvissuto a lungo e per dubitare della convinzione occidentale che avesse perso legittimità. Tutti intendevano parlare del "popolo siriano" ma non esisteva un "popolo siriano" che parlasse con una sola voce. I siriani si dividono profondamente secondo criteri regionali, religiosi, etnici e di classe. Chiunque fosse vissuto in Siria per un po' di tempo sapeva bene che molti siriani avrebbero sostenuto Assad fino alla morte, specialmente se avessero avuto la sensazione che gli islamici potessero giungere al potere. Io avevo scritto vari articoli su l'opposizione siriana prima del 2011, ed ero arrivato alla conclusione che fosse divisa al di là di ogni speranza e minata da lotte intestine. Gli oppositori si odiavano l'un l'altro e non sarebbero mai arrivati ad un accordo per un'alternativa ad Assad. La classe liberale e filo occidentale in Siria era poco numerosa. Sarebbe finita rapidamente distrutta tra il martello dei gruppi islamisti e l'incudine dell'apparato di sicurezza di Assad.

Il Presidente Barack Obama mentre legge il discorso sul Medio Oriente
al Dipartimento di Stato a Washington, 19 maggio 2011 (AP photo, Charles Dharapack)


Sarebbe servito armare i gruppi ribelli?
J.: Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton stavano nutrendo delle illusioni quando fondarono, nell'agosto del 2011, il Consiglio Nazionale Siriano inteso come organo di transizione verso un nuovo governo in Siria?
L.: Sicuramente. La scommessa era quella di creare una opposizione siriana unita. Gli oppositori siriani ci stavano raccontando che la Siria non era comperata o come il Libano, che la mentalità commerciale dei siriani era fatta di compromessi e di moderazione e che anche l'Islam siriano era moderato, dominato dal sufismo e dagli oppositori all'ideologia salafita. L'estremismo non avrebbe avuto la meglio, assicuravano. La Siria non si sarebbe radicalizzata, né frammentata. Il presidente Obama prese per buoni i pii desideri sulla probabile caduta di Assad e il desiderio di sostenere la democrazia, i diritti umani dell'opposizione alle dittature, ma si oppose fermamente al coinvolgimento degli Stati Uniti in un'altra guerra civile regionale in cui non si intravedeva una chiara strategia di uscita. Iniziò a frenare su questo punto appena diventato chiaro che Assad non sarebbe caduto velocemente. Respinse ogni pretesa di un serio impegno economico da parte degli Stati Uniti. Abbiamo speso vari miliardi di dollari l'anno in Siria tra aiuti umanitari, armi non letali e sostegno militare all'opposizione, ma non abbiamo certo fatto come in Iraq, dove ogni settimana spendevamo cinque miliardi di dollari.
J.: Hillary Clinton afferma che se avessimo armato i cosiddetti ribelli moderati nel 2012 come volevano lei e David Petraeus i risultati sarebbero stati differenti.
L.: I ribelli siriani si stavano radicalizzando, non importava quanto sarebbero stati generosi gli ameriKKKani nell'inviare armi. L'idea che gli Stati Uniti avessero il potere di orientare l'opposizione siriana con il loro denaro è priva di fondamento. Molti attivisti e molti appartenenti ai think tank di Washington pensano che i radicali hanno avuto la meglio in Siria perché erano meglio finanziati delle milizie moderate; i paesi del Golfo hanno inviato denaro ai radicali al tempo stesso in cui gli Stati Uniti all'Europa tenevano i moderati a stecchetto. Non esiste nulla che lo provi. I radicali hanno ottenuto fondi perché vincevano. Combattevano meglio, avevano una migliore visione strategica ed erano più popolari. L'idea che se Washington avesse riversato miliardi di dollari su milizie moderate selezionate quelle avrebbero ucciso gli estremisti e distrutto il governo di Assad è un'idiozia.
J.: Vero, ancora lo scorso anno la Clinton affermava più o meno la stessa cosa.
L.: Un ragionamento che era un castello in aria. Non esiste niente che lo sostenga. Se consideriamo il Medio Oriente nella sua interezza, ogni volta che un governo è stato rovesciato, che fosse in Iraq, in Libia, nello Yemen o in Afghanistan, c'è stato un periodo di grazia lungo tre o sei mesi nel corso del quale l'intera società ha vissuto come sotto shock e si è quietata per vedere quali sarebbero state le conseguenze del rovesciamento del governo. Gli americani avrebbero pensato loro a sostituire per magia le istituzioni ed i servizi dello Stato? Quando poi si capisce che gli Stati Uniti sono impotenti e il disordine prevale, la gente comincia ad organizzarsi. Gli islamici spingono da parte di gruppi della società civile preferiti dagli Stati Uniti perché sono intenzionati a combattere. Hanno un'ideologia ed un progetto preciso dispongono di buoni combattenti e di fiancheggiatori radicati. Al Qaeda ed altri gruppi radicali hanno combattuto per rovesciare l'ordine mediorientale e i suoi governi laici per interi decenni. Assad è riuscito a tenere il campo col nazionalismo laico e con concetti come la separazione tra Chiesa e Stato. Gli elementi nazionalisti moderati dell'opposizione non sono riusciti ad avanzare una visione convincente di una Siria basata sull'inclusione, e non basata sulla legge sacra, che trattasse alla pari le minoranze religiose e i non arabi. Nessuno dei gruppi dell'opposizione portava la bandiera del laicismo. Gli islamici hanno vinto la battaglia ideologica per il cuore e per la mente e la bandiera nera dell'Islam è stata velocemente issata più in alto del tricolore siriano dai principali gruppi dell'opposizione. L'AmeriKKKa ha effettivamente cercato di organizzare i "moderati". Ha fallito non perché non ci ha provato, ma perché i moderati che si era scelta erano incompetenti e impopolari. Appena hanno cominciato a prendere soldi ed ordini dall'AmeriKKKa i radicali li hanno tacciati di essere agenti della CIA, corrotti e traditori della rivoluzione. L'AmeriKKKa era veleno, tutto quello che toccava diventava sabbia.
Per mettere in piedi una opposizione moderata in Siria sono state seguite tre diverse strategie; sono fallite tutte e tre, una in maniera più spettacolosa dell'altra. Il segretario di Stato Hillary Clinton fece di tutto per mettere insieme  i novantasette paesi chiamati "Amici della Siria" e per cominciare ad offrire sostegno diplomatico e finanziario all'opposizione siriana in conferenze ed incontri internazionali. Il suo intento era quello di dare all'opposizione una forma tale che l'AmeriKKKa e all'Occidente potessero sostenerla: farla diventare qualcosa di moderatamente liberale, di mentalità aperta e nazionalista. Con l'aiuto del Qatar agevolò l'affermarsi del Consiglio Nazionale Siriano, che agisse come rappresentante politico dell'opposizione. Nelle consultazioni elettorali del Consiglio vincevano sempre i Fratelli Musulmani, perché erano quelli meglio organizzati, e l'AmeriKKKa cercava sempre scuse per non riconoscerne la supremazia. Lo sforzo degli USA per mettere in piedi e per promuovere una strategia militare per l'opposizione è fallito in maniera ancor più plateale. L'AmeriKKKa promosse nel 2012 la costituzione di un Supremo Consiglio Militare, che agisse come braccio militare del Consiglio Nazionale Siriano.
Il Supremo Consiglio Militare del Libero Esercito Siriano era guidato da un certo Salim Idris, a quanto pare un disertore dell'Esercito Siriano dal carisma pari a zero. Sovrintendeva a una quantità di magazzini stipati di equipaggiamenti forniti da varie agenzie dei servizi, ed avrebbe dovuto passarli alle milizie moderate nel tentativo di comprarne la lealtà e, teoricamente, riunirle sotto il suo comando. Idris non conquistò mai alcuna autorità sul nugolo di formazioni che aiutò ad equipaggiarsi. Quando alcune milizie islamiche radicali stabilirono che non era abbastanza generoso marciarono sui depositi li saccheggiarono. Presero tutti gli equipaggiamenti ed ogni altra cosa che era stata fornita dagli Stati Uniti. Trattarono gli uomini di guardia come se fossero i loro sguatteri, li incaprettarono e li lasciarono a rotolarsi per terra. Neppure una delle milizie del Libero Esercito Siriano si mosse per difenderlo; anzi, sui social media lo presero in giro per le sue disavventure. Idris dovette filarsela di corsa in Turchia, e dalla Turchia a chi diede la colpa...? A Washington. Idris invocò la stessa scusa trita e ritrita che gli attivisti siriani avevano accampato per i loro fallimenti: Washington non era abbastanza generosa. La verità era tutt'altra. Washington aveva destinato loro troppi equipaggiamenti, che adesso si trovavano nelle mani di al Qaeda e compagnia. In Iraq gli Stati Uniti furono infinitamente più larghi di di manica nell'armare i cosiddetti "moderati" e sappiamo tutti la vergognosa faccenda dello Stato Islamico che ha sottratto alle formazioni addestrate dagli ameriKKKani centinaia di carri armati, di Humvee e di pezzi di artiglieria quasi sempre senza che venisse sparato un colpo. Per la CIA e per gli Stati Uniti è stato uno smacco tremendo. Quindi intrapresero una nuova strategia, che consisteva nel contattare direttamente in Siria gruppi di capi milizia. Abbiamo sostenuto questa gente per diverso tempo, fino a marzo 2015; solo che questi, soprattutto il movimento Hazm e il Fronte Rivoluzionario Siriano di Jamal Maarouf, sono stati fatti a pezzi da An Nusra, l'Al Qaeda siriana, e da Ahrar al Sham, che è una formazione salafita alleata di An Nusra. Ancora una volta le formazioni che gli AmeriKKKani controllavano sul terreno si univano agli jihadisti e ad altri gruppi islamici, oppure abbandonarono il campo di battaglia e lasciavano che le loro armi finissero in mano alle formazioni radicali. I detrattori hanno sostenuto che gli Stati Uniti stavano di fatto armando al Qaeda, sia pure senza volerlo. 
L'ultimo grosso sforzo fatto da Washington per aiutare i ribelli è stato un'iniziativa ufficiale del Ministero della Difesa, chiamata "addestra ed equipaggia"; costo dell'operazione, un miliardo e mezzo di dollari. Decidemmo che avremmo portato singoli individui fuori dalla Siria per adeguatamente organizzzarli, addestrarli ed armarli in campi situati in Giordania ed in Turchia. Queste brigate avrebbero operato sotto diretto controllo ameriKKKano. Solo che in Turchia abbiamo addestrato ed equipaggiato a malapena sessantacinque combattenti, e sono crollati appena entrati in azione! Il comandante dei soldati organizzati da noi ha disertato ed ha aderito ad al Qaeda portandosi dietro le armi e molti dei suoi uomini meglio addestrati. Insomma, tutte e tre le strategie tentate per unire, armare, equipaggiare ed addestrare ribelli contro Assad sono fallite miseramente.
Le formazioni radicali non hanno vinto perché l'AmeriKKKa non si è curata di quelle moderate e le ha abbandonate a se stesse. Hanno vinto perché potevano contare su combattenti migliori, maggiormente dediti alla causa e meglio comandati da combattenti esperti, che avevano un'idea precisa della società e dell'assetto governativo che intendevano realizzare. Sono state padrone del campo di battaglia. Ecco perché lo Stato Islamico nel 2014 ha imperversato in tutto l'est della Siria ed ha inglobato la maggior parte dell'Iraq sunnita senza bisogno di sparare un colpo. L'ideologia islamica è risultata essere l'unica in grado di unire i siriani a livello nazionale, unendo le formazioni ribelli dal nord fino al sud del paese.
I cosiddetti di moderati erano semplicemente dei capibastone locali che riunivano attorno a sé cugini, appartenenti allo stesso clan e combattenti provenienti dal loro paese e dai paesi vicini. Bastava allontanarsi di due o tre villaggi, e venivano visti come estranei rompiscatole, venali e propensi alla razzia. Erano dei signori della guerra. Pochi potevano mettere insieme più di un migliaio di combattenti; i più ne avevano assai di meno. Non avevano un'ideologia precisa e non potevano esplicitare un'idea per la Siria. Ecco perché gli sforzi degli ameriKKKani di unificare il Libero Esercito Siriano sono finiti con un pugno di mosche. La società siriana è frammentata. Sia Assad che lo Stato Islamico sono in grado di reggersi in piedi facendo largo ricorso alla costrizione, alla corruzione e al clientelismo, che si dicano nazionalisti laici o fautori del califfato islamico. L'AmeriKKKa in un ambiente del genere non può costruirsi una via che la porti al successo.

Ribelli siriani in addestramento a Maaret Ikhwan, vicino a Idlib in Siria. 
L'addestramento è parte del tentativo di trasformare un'armata Brancaleone
in una forza combattente disciplinata (foto AP, Muhammed Muheisen).


Obama e la linea rossa
J.: Anche chi non era favorevole ad armare i ribelli nel 2012 potrebbe sempre dire che quando nel corso dello stesso anno Obama ha indicato nell'utilizzo di gas benefici da parte di Assad una "linea rossa" da non superare ed un anno dopo ha mancato di dar seguito alla cosa con un attacco aereo contro il governo siriano, gli Stati Uniti hanno perso un'occasione per mettere il governo all'angolo e costringerlo ad un qualche compromesso.
L.: Tutti quelli che nutrivano la speranza che l'America avrebbe in qualche modo distrutto il governo di Assad e riunito nuovamente la Siria hanno sempre proiettato su Obama questi loro desideri. Obama è andato dicendo fin dal principio che non intendeva rimanere coinvolto e che l'AmeriKKKa non avrebbe messo piede in Siria. Obama ha sempre sottolineato che gli Stati Uniti avrebbero al massimo condotto attacchi aerei di ritorsione, ma che non avrebbero cercato di cambiare l'equilibrio dei poteri nella guerra civile. Obama diceva che avrebbe considerato valida la norma internazionalmente accettata secondo cui non si dovrebbero utilizzare armi chimiche ed armi di distruzione di massa ed ha mantenuto la parola.
J.: Quindi Obama è stato coerente quando ha rifiutato di condurre attacchi aerei ed ha deciso invece di negoziare con i russi con i siriani?
L.: Assolutamente. Se non avesse negoziato con i russi e con Assad per eliminare dal campo di battaglia roba del genere, se avesse invece deciso di bombardare duecento soldati siriani e di far saltare alcuni depositi di armamenti chimici in un attacco punitivo la cosa avrebbe anche potuto non avere alcun effetto. Se invece, per ipotesi, avesse destabilizzato il governo di Assad e ne avesse causato la caduta, a prendere Damasco sarebbero state le milizie radicali all'epoca predominanti. Ci saremmo ritrovati con un migliaio di gruppi armati diversi a trafugare armamenti chimici dai depositi sparsi per tutto il paese. L'intero Medi Oriente sarebbe diventato un gigantesco deposito di gas sarin e di agenti nervini di ogni genere; sarebbe stato un disastro. Il fatto che Obama sia riuscito a far sparire quegli armamenti è stato una gran cosa per i siriani, e più in generale per il Medio Oriente per il mondo occidentale.
J.: A partire da quel momento la strategia del governo statunitense è stata implicitamente quella di lasciare Assad al potere e di concentrarsi invece sulla sconfitta dello Stato Islamico?
L.: Senza dubbio, perché è diventato sempre più chiaro che se Assad fosse caduto i radicali avrebbero verosimilmente avuto la meglio. Ci si poteva ritrovare con al Qaeda -o in seguito con lo Stato Islamico- a Damasco. Si pensi a che disastro sarebbe stato se una grossa capitale mediorientale fosse caduta nelle mani dell'una o dell'altro. Almeno in Iraq siamo stati capaci di organizzare l'esercito iracheno per riprendere Mossul, una città che è grande meno della metà di Damasco. Ma in Siria, chi avremmo potuto armare? Non riusciamo a riprendere allo Stato Islamico neppure la città di Raqqa, una polverosa capitale provinciale di poche centinaia di migliaia di abitanti. L'esercito statunitense avrebbe cercato di riprendere Damasco da solo? Oppure avrebbe cercato di ricostruire un Esercito Siriano che fungesse da alleato? Si pensi a quanto sarebbe stato imbarazzante dover fare una cosa del genere. Se lo Stato Islamico si fosse sistemato a Damasco, il Libano sarebbe sicuramente caduto e la Giordania sarebbe entrata in guerra contro di esso. Sto parlando dell'effetto domino.
Ci sono diplomatici sauditi, attivisti siriani e molti analisti a Washington che continuano a dire che per distruggere lo stato islamico gli Stati Uniti devono prima distruggere Assad. Dicono che se Assad resta al suo posto tutto il Medio Oriente andrà in rovina perché è stato Assad a creare lo Stato Islamico. Questa è un'idea. In effetti Assad ha liberato molti islamici dalle sue carceri nel 2011 e parecchi tra di loro hanno aderito allo stato islamico, ma si tratta di pesci piccoli se pensiamo agli alti comandi dello stato islamico, che invece sono stati liberati dalle carceri controllate dagli ameriKKKani. Lo stesso califfo Al Baghdadi era detenuto in Iraq, a Camp Bukka. Dello Stato Islamico è sicuramente il capo indiscusso. Si potrebbero anche citare i due marocchini liberati da Gitmo, che sono andati in Siria, hanno messo in piedi delle milizie ed hanno ucciso migliaia di siriani innocenti. Se ci rifacciamo a questo criterio delle carcerei, si fa prima a sostenere che lo Stato Islamico è stato creato dagli Stati Uniti piuttosto che da Assad. Non ho mai sentito nessuno a Washington affermare che una soluzione al problema dello Stato Islamico potrebbe essere distruggere il governo ameriKKKano.
Il punto centrale del problema è che l'ideologia salafita radicale si è diffusa in tutto il Medio Oriente. Essa rappresenta una forza preponderante in molti luoghi dove Assad è sconosciuto. Il violento rovesciamento dei governi è stato la prima causa della diffusione dei gruppi radicali islamici, e non andrebbe considerato invece come una soluzione a questo problema. Certamente i cattivi governi, la crescita economica stagnante, l'oppressione e la dittatura possono aver contribuito a rendere popolari le ideologie radicali, ma gli USA non sanno quale sia la causa dello jihadismo. Washington non ha idea di come togliere di mezzo le condizioni che sono all'origine dell'affermarsi dei dittatori. Ogni volta che abbattiamo un dittatore diffondiamo il caos e facciamo moltiplicare gli jihadisti. Le soluzioni che Washington si è risolta a provare per combattere il terrore e la dittatura in Medio Oriente sono fallite. Dovremmo smettere di rifarci sempre agli stessi vecchi sistemi, primo tra tutti il rovesciamento dei governi.

Trump e il programma russo per la Siria.
J.: E il ruolo della Russia in Siria? Nel settembre 2015 i russi vi hanno schierato l'aviazione...
L.: Infatti. Appena i russi si sono accorti che Assad rischiava, hanno aumentato il proprio impegno. L'Iran ha fatto lo stesso. La Russia dispone di una grande base navale a Tartus ed è un alleato storico della Siria; ma soprattutto la Siria è l'ultimo retaggio della massiccia presenza russa in medio oriente dei tempi della guerra fredda. Dopo la caduta del comunismo nel 1990 la Russia è stata costretta a ritirarsi dalla regione, ma il presidente russo Vladimir Putin sta ricostruendo questa presenza. Putin considera la Siria come il cardine di una sfera di influenza assai più vasta a sud della Russia. La Siria ha una posizione centrale, si trova al confine con lo stato sionista e per i russi è una sorta di cabina di regia per rimettere insieme una nuova struttura di sicurezza nel settore nord del medio oriente, dall'Iran al Libano. Putin è diventato un attore di primo piano sulla scena mondiale grazie al suo ruolo dominante in Siria. Si è avvalso di questa posizione di importanza per sedere al tavolo dei negoziati col segretario di Stato John Kerry oltre trenta volte, a Ginevra ed in altre occasioni.
Anche la Russia ha ottimi motivi a sostegno della strategia seguita in Siria. Putin è convinto che le società mediorientali non siano pronte per la democrazia. Ha constatato che la politica ameriKKKana di promozione della democrazia ha provocato caos diffuso e l'ascesa dello jihadismo. È convinto che il Medioriente abbia bisogno di uomini forti, come sicuramente ne ha bisogno la Russia. La Russia sa come gestire questo genere di cose. Che si tratti di Erdogan in Turchia, di Saddam Hussein in Iraq o della monarchia saudita, Putin è convinto del fatto che un'autorità statale forte sia necessaria. Liberarsi di una classe di dittatori corrotta non farà nascere una democrazia come la intendeva Jefferson. Putin ha accusato l'AmeriKKKa di star diffondendo il caos ed il radicalismo. Ha detto che non ha intenzione di lasciare che l'AmeriKKKa faccia la stessa cosa in Siria, perché in Siria stanno combattendo più di tremila ceceni ed altri cittadini russi; teme che rientrino in patria e che attacchino i russi diffondendo il terrore.
J.: Cosa farà adesso Trump?
L.: non è facile capire qualcosa della politica estera di pappagallo per il medio oriente dalle poche stringate dichiarazioni che ha rilasciato. Comunque ci si può provare. Trump non è un promotore della democrazia, e probabilmente condivide la convinzione di Putin che la democrazia non sia adatta al Medio Oriente. Allo stesso modo non ha neppure una gran considerazione dei musulmani. Trump è un isolazionista. Per certi versi rappresenta un ritorno ai fautori del "prima l'AmeriKKKa" degli anni Trenta. Crede che gli Stati Uniti dovrebbero intervenire solo se direttamente minacciati. È anche contrario al rovesciamento dei governi. Le sue critiche nei confronti della politica mediorientale nascono da quanto è accaduto in Libia, che gli ha permesso di fare facilmente le pulci alla Clinton. Trump ha statuito che la Libia è stata un disastro. Tutto quello che la Clinton è riuscita a fare distruggendo un dittatore, sia pure uno odioso come Gheddafi, è stato far peggiorare la situazione. Il rovesciamento del governo è stato un disastro, ha concluso Trump.
J.: Ma Trump non aveva cominciato attaccando Jeb Bush e suo fratello sull'invasione dell'Iraq, enumerandone le disastrose conseguenze? È successo nel 2015, alle primarie.
L.: Trump all'inizio era riluttante a criticare il retaggio della presidenza Bush, ma si è preparato a farlo e alla fine l'ha fatto davvero. Ha affermato che l'Iraq era diventato "la Harvard dello jihadismo"; in un certo senso stava facendo proprie le critiche dei russi. È arrivato alla conclusione che l'AmeriKKKa non dovrebbe intraprendere il rovesciamento dei governi e che dovrebbe invece prendere atto del fatto che gli uomini forti sono necessari per mantenere l'ordine. In questo senso Trump ha riportato il partito repubblicano ai tempi precedenti l'affermarsi dei neocon. Nelle sue dichiarazioni si può avvertire l'eco dell'ex ambasciatore all'ONU Jeane Kirkpatrick[2]. Durante la presidenza di Ronald Reagan ebbe a sostenere che certe dittature sono meglio di altre cose. E in questo caso "le altre cose" sono gli islamici. Avremmo dunque dovuto lasciar perdere Gheddafi, Saddam ed Assad.
Trump ha anche detto che forse dovremmo lasciare che siano i russi a sbrigarsela in Siria. I russi stanno distruggendo lo Stato Islamico; facciamo squadra con loro e lasciamo Assad al potere. Sarà anche un tremendo dittatore, ma è meglio delle alternative. Insomma, Trump ha dato un'occhiata al programma dei russi e ha detto che è azzeccato! Le critiche di Trump hanno trovato eco presso la popolazione ameriKKKana, che le ha accolte con calore. Gli ameriKKKani sono stanchi di dover pagare per avventure lontane e mal condotte. Persino il senatore Ted Cruz, che stava seguendo pari pari il manuale di Bush, ha fatto una virata di centoottanta gradi! Quasi tutti i repubblicani hanno fatto proprie le argomentazioni di Trump. Un voltafaccia avvincente...
J.: Quindi c'è da aspettarsi che da presidente continuerà a rifarsi al programma dei russi?
L.: Il problema è che Trump non è affatto circondato da isolazionisti.  In AmeriKKKa un partito isolazionista non esiste più dagli anni Trenta, per cui non è che esistano dei quadri formati da isolazionisti da cui è possibile attingere. Anzi, per formare il governo sta pescando fra un sacco di generali. Anche se non sono dei neoconservatori, sono di sicuro favorevoli ad una politica estera statunitense più muscolare. Non sono isolazionisti. Sono nella loro interezza contro l'Iran e per lo più sembrano anche antirussi, a dispetto delle inclinazioni di Trump; difficile sapere cosa farà.

Il predominio iraniano e russo
J.: Cosa potrebbe fare Trump in Siria?
L.: Parecchi vorrebbero che la Russia e l'Iran venissero cacciati dalla Siria; almeno, questo è quello che suggeriscono. L'unico modo per farlo sarebbe quello di scatenare i ribelli. E non dovremmo farlo perché è una cosa che non ha funzionato, sarà il caso di farsene una ragione. Ma lasciate che dica la mia da un altro punto di vista, su come si sono messe le cose per Washington.
Nella zona settentrionale del Medio Oriente è in atto la costruzione di una nuova architettura di sicurezza, in cui predominano l'Iran e la Russia. Questo è in gran parte successo a causa degli errori di calcolo fatti dagli USA in Iraq. Quando in Iraq abbiamo infranto la supremazia sunnita di Saddam e abbiamo aiutato gli sciiti ad arrivare al potere abbiamo aperto la strada alla formazione di una "mezzaluna sciita" estesa dall'Iran al Libano.
Abbiamo sempre detto che l'Iran è una potenza malvagia ed aggressiva che sta cercando di affermarsi con la forza in Medio Oriente e che è dunque necessario arginare. Ma la nostra strategia militare è diametralmente opposta a questo obiettivo proclamato a parole. Sul piano militare noi abbiamo aiutato la diffusione del potere sciita ed iraniano; stiamo bombardando lo Stato Islamico, che costituisce la parte più valida della ribellione sunnita. Abbiamo inficiato ogni tentativo di rovesciare il governo filoiraniano di Bagdad. La Russia in Siria sta facendo esattamente la stessa cosa. Per combattere l'estremismo sunnita ed il terrorismo gli Stati Uniti e la Russia si sono avvicinate all'Iran. Stanno usando eserciti e milizie a predominanza sciita per distruggere lo stato islamico ed al Qaeda. 
In Iraq, per sconfiggere lo stato islamico ed al Qaeda che colpiscono gli ameriKKKani gli europei e gli Stati Uniti non hanno altra possibilità che quella di allearsi con le milizie sostenute dall'Iran. Gli Stati Uniti muoiono dalla fretta di distruggere lo stato islamico. Alcune settimane fa il luogotenente generale Stephen Townsend, che è al comando delle forze della Coalizione in Iraq, ha espresso apprezzamento per i rapidi progressi compiuti dalle milizie sciite irachene addestrate dall'Iran e ha detto che "sono avanzate più rapidamente di quanto ci aspettavamo, ed hanno fatto un buon lavoro."
L'esercito iracheno che l'AmeriKKKa aveva addestrato ed equipaggiato era inteso per essere leale ad una costituzione e ad una nazione irachena in cui pochi confidavano. Davanti allo Stato Islamico si è liquefatto. L'AmeriKKKa non aveva compreso la natura del potere militare in Medio Oriente, che si fonda su un concetto tradizionale di lealtà. Un concetto che implica il difendere il proprio gruppo settario, il proprio clan, il proprio villaggio, la propria proverbiale tribù. Le milizie sciite locali credono che se non sconfiggeranno lo Stato Islamico lo Stato Islamico spazzerà via loro, e sarà così. Non è il fervore religioso a guidarle, ma un insieme di patti condivisi, all'interno di una cultura religiosa comune. Per certi aspetti la religione costituisce il nuovo profilo etnico del Medio Oriente. Con il crollo delle dittature laiche che dominavano dai tempi della seconda guerra mondiale, le identità religiose hanno preso sempre più il sopravvento rispetto a quelle nazionali.
J.: I paesi sunniti però non acconsentiranno a questo mutamento negli equilibri di potere.
L.: La guerra civile siriana, come quella in Iraq, si è trasformata rapidamente in una guerra settaria: le parti hanno cercato sostenitori in base a linee religiose. Entrambe le parti temono che l'altra possa darsi alla pulizia etnica o addirittura al genocidio. La competizione geostrategica tra Iran ed Arabia Saudita non ha fatto che esacerbare questa polarizzazione secondo criteri religiosi. Le due potenze regionali hanno finanziato o addestrato milizie settarie. Ma nella zona che va dall'Iran al Libano sono ora gli sciiti ad avere la meglio, e questo sta mandando i sunniti fuori dai gangheri: gli sembra che il mondo si sia capovolto.
Il mondo arabo è sempre stato un mondo sunnita. L'impero ottomano era un impero sunnita. Gli sciiti erano luridi bifolchi ufficialmente discriminati. Che siano passati da una situazione di discriminazione all'essere la forza politica dominante in Iraq, in Siria, ed in Libano è una cosa scioccante. Una cosa che a molti sembra contraria all'ordine divino. In Iraq molti sunniti hanno reagito col rifiuto al nuovo stato di cose. Non hanno accettato il fatto che gli sciiti fossero la maggioranza della popolazione irachena molti sciiti sono stati accusati di essere persiani, e non iracheni veri e propri.
Il linguaggio dispregiativo usato da gran parte dell'opposizione per parlare degli sciiti e degli alaWiti in Siria indica fino a che punto la contesa è diventata settaria. I leader delle milizie non considerano gli sciiti come veri musulmani; al contrario, li accusano di essere arfad, colpevoli di rifiuto, coloro che non riconoscono i padri fondatori del vero Islam. Siccome appartengono alla religione sbagliata vengono correntemente considerati come appartenenti al popolo sbagliato. Un vocabolo comunemente usato in Siria per indicare gli sciiti è Majous, traducibile con Magi: gli sciiti sarebbero dei cripto persiani e non dei veri arabi.
Hezbollah nella quasi totalità dei video diffusi dall'opposizione siriana non viene denominato "il partito di Allah", come dovrebbe essere correntemente tradotta la sua denominazione, ma come "partito del diavolo", Hezbolshaitan. Gli sciiti vengono spesso indicati come najis, "sporco". Il vocabolo si trova nel Corano, e sul piano religioso significa impuro. Diversi capi ribelli in Siria hanno pubblicamente parlato di purificare la Siria dallo sporco sciita che la sconcia, e di buttare gli alawiti in mare. Ovviamente parte di questa retorica può anche essere derubricata a propaganda pura e semplice, utile ad attizzare lo spirito combattivo.
In ogni caso al conflitto sulle identità religiose si è accompagnato quello per il potere a livello nazionale. Si tratta di una stazione pericolosa, perché può sfociare nella pulizia etnica e anche nel genocidio. Abbiamo assistito a conflitti etnici e religiosi dello stesso genere portati all'estremo in Europa centrale durante la seconda guerra mondiale, nel corso della quale 6 milioni di ebrei sono stati sterminati in nome del nazionalismo ed in cui la pulizia etnica ha coinvolto, si pensa, 35 milioni di persone. 
J.: Ma per quale motivo gli sciiti stanno vincendo? Solo perché l'AmeriKKKa li ha involontariamente aiutati contro loro nemici?
L.: Indubbiamente, nel settore nord del Medio Oriente gli sciiti stanno vincendo. Le ragioni per cui stanno vincendo sono quattro. All'inizio i servizi segreti occidentali hanno previsto che i ribelli sunniti avrebbero vinto; hanno commesso tutti lo stesso errore di considerare la Siria come un monoblocco circondato da frontiere impermeabili. Hanno preso per buona questa previsione perché gli arabi sunniti sono il 70% della popolazione siriana egli alawiti solo il 12%, per cui i sunniti avrebbero vinto. La guerra in Siria, anche se fosse diventata una battaglia di logoramento, avrebbe favorito i sunniti perché erano più numerosi.
Questo si è rivelato un errore di calcolo, perché tutta la regione è diventata un campo di battaglia. Se consideriamo gli equilibri a livello settario di tutti gli arabi che vivono tra il Mediterraneo e la frontiera iraniana, sono gli arabi sciiti ad essere più numerosi. Gli arabi sciiti del Libano, della Siria e dell'Iraq superano gli arabi sunniti della stessa regione sia pure di poco. Direi che questo spiega almeno in parte perché i sunniti stanno perdendo. Gli sciiti sono di più.
Il sostegno di Hezbollah ed iracheno nei confronti di Assad è stato fondamentale per la sopravvivenza dell'Esercito Arabo Siriano. Per tacere dei massicci ed insostituibili aiuti dell'Iran sciita. Tutti costoro sono convinti che se gli sciiti lasciano che i sunniti taglino in due la "mezzaluna sciita" distruggendo il controllo di Assad sulla Siria ed imponendovi quello sunnita ne usciranno gravemente indeboliti. Non possono permettere che i nemici del Golfo Persico, dello Stato sionista e della Turchia -per tacere dell'Occidente- infliggano loro una sconfitta. La cospirazione cui Assad e gli altri fanno sempre riferimento è questa.
Il governo siriano ha trasformato velocemente la rivolta in un conflitto armato riuscendo così a consolidare la fedeltà delle elite cittadine. I sunniti di città delle classi più elevate sostengono il governo. Hanno dovuto soppesare i vantaggi che venivano loro da sostenere i pretoriani alawiti che disprezzano, piuttosto che dallo schierarsi con le milizie islamiche delle campagne, che invece temono. Le sanzioni occidentali non sono riuscite a convincere i ricchi ad abbandonare il governo e a mettersi dalla parte dei poveri che vivono perlopiù nelle campagne. Ad Aleppo, che è la città industriale della Siria, i ricchi hanno constatato che i ribelli non avrebbero avuto alcuna misericordia di loro. Oltre un migliaio di fabbriche nei sobborghi e nel distretto industriale di Aleppo è stato saccheggiato e depredato dalle milizie nei primi mesi del conflitto. I cittadini ricchi sono stati presi come ostaggi e rapinati delle loro cose. Insomma, come dice il vecchio adagio, "ai ricchi le rivoluzioni non piacciono".
Dandosi allo jihadismo salafita le milizie dapprima si sono precluse il pieno appoggio dell'Occidente, e poi hanno fatto sì che Obama e gli altri le abbandonassero. Gli USA hanno rinunciato al loro ruolo di poliziotti del mondo per concentrarsi sulle zone per loro più importanti; altre potenze hanno dunque ricominciato a reclamare le proprie zone di influenza. In questo caso Iran e Russia rivendicano il corridoio Siria - Iraq - Libano; in mancanza di un'espressione migliore è quello che viene chiamato "mezzaluna sciita".
J.: Non è pericoloso lasciare che Russia ed  Iran espandano il loro potere?
L.: Ci sono analisti a Washington che sostengono che gli USA devono distruggere questo nuovo arco di influenza russo-iraniano. Il problema è che il potere nella regione russi ed iraniani lo hanno consolidato proprio con l'aiuto ameriKKKano. L'unico modo per distruggerlo sarebbe quello di scatenare gli insorti sunniti che in questo momento sono per la gran parte fuori combattimento. Farlo sarebbe un errore. Non solo non funzionerebbe, ma potrebbe anche portare alla pulizia etnica delle popolazioni sunniti se non si calmano gli animi e non si ripristina la stabilità.
J.: Il recente accordo tra Russia, Turchia e Siria indica un ulteriore passo avanti verso la riconquista del paese da parte di Assad ed il consolidamento delle posizioni russe nella regione?
L.: Senz'altro. Proprio la scorsa settimana Turchia, Russia ed Iran hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si afferma che tutti devono rispettare la sovranità della Siria. Se ne deve concludere che la Turchia è pronta a mettere la sordina all'opposizione siriana a patto che Assad la aiuti a contrastare l'affermarsi di uno stato curdo indipendente nel nord della Siria.

Le possibilità di Trump in Siria
J.: Cosa significa tutto questo per la presidenza Trump?
L.: Bisognerebbe sapere se Trump intende rassegnarsi ai nuovi equilibri delineatisi, al fatto che Iran e Russia saranno i protagonisti nel nord della regione. Penso che debba concedere questo ruolo alla Russia. Innanzitutto la Siria è sempre stata un alleato dei russi; in secondo luogo, Obama ha già preso una decisione in questo senso. Quando i russi si sono gettati nella guerra in Siria nel 2015 Obama ha deciso che gli USA non avrebbero combattuto una guerra per procura contro i russi per la supremazia in Siria. Nel momento stesso in cui lo ha affermato ho avuto la certezza che per i ribelli siriani era finita. Ormai era deciso. Solo una escalation statunitense avrebbe potuto impedire all'esercito di Assad di prendersi la rivincita.
La critica che ora circola presso i partecipanti ad alcuni think tank di Washington è che Assad è troppo debole per riconquistare la Siria e che gli USA devono quindi intromettersi, specie se vogliono sconfiggere velocemente lo Stato Islamico. Sostengono che la Siria sia un paese in cui coesistono molti ambienti sociali e culturali diversi. La Century Foundation, la New AmeriKKKa Foundation e il Center for a New AmeriKKKan Security hanno pubblicato politiche in cui perorano in un modo o nell'altro a favore del mantenimento sul terreno di forze speciali statunitensi e del sostegno ai gruppi di insorti della regione. L'idea è quella di ricavare delle zone autonome che permetterebbero agli USA di esercitare pressioni e magari di costringere la Russia ed Assad a negoziare. Rifiutano di affermare che sono favorevoli alla divisione della Siria, e parlano invece di una struttura fatta di regioni autonome ma alla fin fine si tratta esattamente della stessa cosa: si dovrebbe mantenere il controllo di alcune zone della Siria per consentire agli USA di essere della partita.
Assad sta riconquistando la Siria, villaggio dopo villaggio. Gli insorti ancora al loro posto non possono reggere contro un esercito che ha il sostegno dei russi. Dare ai ribelli siriani la speranza di poter resistere sarebbe, da parte dell'AmeriKKKa, un inganno.
La coalizione sorta attorno all'AmeriKKKa e che comprende i paesi del Golfo e la Turchia ha rovesciato sulla Siria oltre venti miliardi di dollari di armamenti per i ribelli. Senza tutto questo denaro Assad avrebbe vinto molto più velocemente, meno siriani sarebbero rimasti uccisi, e molti meno siriani avrebbero dovuto fuggire dalle loro case.
J.: Adesso parliamo di nuovo di Trump. Cos'è che può fare?
L.: Trump, in fin dei conti, ha bisogno di stringere i denti esattamente come ha fatto Obama, e deve evitare di farsi risucchiare in un contesto sociale estremamente frammentato ed in una guerra civile. I russi ed Assad stanno ristabilendo il controllo di Assad sulla Siria. Si tratta di una realtà molto dura ma a questo punto la maggior parte dei siriani vuole la stabilità e la sicurezza, e sono pronti a gettarsi tra le braccia di un'autorità in grado di offrirle. L'AmeriKKKa non può cambiare la situazione, quindi non dovrebbe tenere accese le ceneri di questa rivoluzione.
La prossima amministrazione avrà il problema di come porsi nei confronti della Siria di Assad. Voltare le spalle al paese e costringere Russia ed Iran alla ricostruzione? Continuare ad imporre devastanti sanzioni al governo? Dal punto di vista emotivo la cosa porterebbe delle soddisfazioni. I nostri assunti di base, secondo cui la Siria dovrebbe essere una democrazia e l'AmeriKKKa non dovrebbe sostenere dittature ne uscirebbero intatti. Ho appena assistito ad una conferenza al Baker Institute in cui la maggior parte dei relatori era dell'idea che Russia ed Iran dovrebbero essere lasciati cuocere nel loro brodo. Il punto di vista predominante pare quello di cercare di trasformare la Siria in un pantano, in modo da punire l'Iran e la Russia. Una cosa del genere però condanna i siriani a lunghe sofferenze e gli impedirebbe per sempre a molti profughi di tornare a casa. In alternativa potremmo cercare di conseguire qualche piccolo successo offrendo ad Assad un allentamento delle sanzioni. Dopotutto in Siria l'America non avrebbe comunque la parte del leone. È un ruolo cui essa ha rinunciato; cosa possono mai sperare di ottenere gli Stati Uniti? Una possibilità sarebbe quella di inviare nelle carceri siriane osservatori della Croce Rossa per stilare liste di detenuti ed impedire gli abusi peggiori che sappiamo vi si verificano. Potremmo aiutare il sistema educativo. Ogni futura speranza di ricostruire una società civile e una democrazia in Siria infatti passa attraverso l'istruzione. E perché invece non aiutare il restauro e la ricostruzione dei centri storici distrutti ad Aleppo e a Homs? E i siti patrimonio dell'umanità come Palmira?
Gli Stati Uniti dovrebbero cercare di impegnarsi in cosa del genere, che richiederebbero una qualche intesa con il governo di Assad? O dovremmo uscirne con le mani pulite e dire "al diavolo la Siria"? Questa è la scelta che abbiamo. Non è un granché, ma penso si tratti dell'unica risposta corretta. Prima ci rassegneremo all'idea che non possiamo rovesciare il governo siriano, prima saremo in grado di fare qualche cosa di buono, sia pure di modesta portata. Le sofferenze e le privazioni per i siriani sono durate abbastanza.

[1] Nel 1848 una serie di rivoluzioni antimonarchiche si sviluppò in tutta Europa. Furono represse, ma in molti paesi furono i precursori di governi su base parlamentare. Nel 1968 tra gli studenti delle scuole superiori si diffuse un movimento di rivolta contro Charles de Gaulle che si diffuse alla classe operaia e fini col portare de Gaulle alle dimissioni.

[2] Nel 1979 Jeane Kirkpatrick ha scritto un importante saggio, Dictatorships and Double Standards, in cui affermava che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto esitare a fornire sostegno ad un regime autoritario nel caso l'alternativa fosse stata il comunismo. 



sabato 21 gennaio 2017

Alastair Crooke - La vittoria di Trump è uno schiaffo alle élite



Da Consortium News, 12 novembre 2016.

Insomma, eccoci. La Brexit, come avevamo ipotizzato tempo fa, non è uno sporadico ritorno di fiamma ma la manifestazione di un'insoddisfazione profonda e diffusa nella società occidentale. Per dirlo con chiarezza, non soltanto sessanta milioni di ameriKKKani hanno votato per Trump, ma altri tredici milioni che avevano votato alle primarie per Bernie Sanders hanno anch'essi votato per un mutamento strategico, anche se partendo da una posizione politica differente.
Qui non vogliamo fare le Cassandre a bocce ferme, ma cercare di capire cosa possa esserci dietro la Brexit e l'elezione di Trump, un qualcosa che al momento è in ombra a causa della sovraesposizione mediatica e politica degli avvenimenti.
Per prima cosa consideriamo Donald Trump. Non sorprende il fatto che le sue defaillances personali e il fatto di essere un miliardario abbiano attirato gli strali dei mass media, che si chiedono se sia in grado di imporrre un mutamento strategico oppure no. In effetti è una cosa importante, ma non inquadra la questione. La questione è che gli elettori hanno poche, pochissime opportunità di contestare lo stato di cose presente, soprattutto quando i partiti centristi occidentali hanno apertamente macchinato in modo da offrire agli elettori varianti poco distinguibili della stessa agenda progressista, liberale e globalizzata.
In poche parole si è evidentemente consolidata una base così esasperata dalla impermeabilità delle élite nei confronti delle sue vere condizioni da volere che l'attuale stato di cose finisca, non importa ad opera di chi.
Non importa ad opera di chi; l'essenza della questione è questa. Non si è mai trattato di fare una specie di concorso di bellezza tra aspiranti capi dell'esecutivo: Bernie Sanders sarebbe stato un presidente ideale? E Nigel Farage? Trump sarà in grado di aprire un'epoca nuova? Non lo sappiamo, ma non è una possibilità da escludere a priori. Il non importa ad opera di chi, piuttosto rivela quanto sia profonda la alienazione che giace latente nella società ameriKKKana.
La smodata attenzione per l'esuberante personalità del signor Trump rischia di mettere in ombra il fatto che l'insoddisfazione nei confronti della democrazia, della cultura politica delle identità, della globalizzazione e dei suoi problemi non scomparirà certo adesso. Il signor Trump potrà avere successo oppure no, ma l'ondata di scontento è destinata a durare, in un modo o nell'altro, ed è probabile che si diffonda ad altre parti del continente europeo lasciandolo confuso e politicamente ininfluente. Essa rappresenta una condizione di profonda alienazione. Non dovremmo aspettarci un facile ritorno ad un mondo liberale, nel caso il signor Trump dovesse fallire in qualche modo.
Allo stesso modo il signor Trump non va considerato come uno strano fenomeno politico fuori dal mondo. In concreto corrisponde abbastanza fedelmente ad uno dei principali orientamenti del conservatorismo ameriKKKano. Questo orientamento dubita per istinto delle riconfigurazione politiche e sociali di portata grandiosa e preparate a tavolino, e preferisce considerare la natura umana per quello che è; preferisce concentrarsi sui bisogni interni del paese invece che su avventure all'estero dall'esito incerto; è conservatore dal punto di vista finanziario; non cerca di influenzare l'economia, e tende a considerare la famiglia come il costituente essenziale della società. Si tratta di uno spirito che considera gli altri paesi come la Russia o la Cina come paesi normali coi quali si dovrebbe dialogare in nome degli interessi comuni.
Il fatto che Trump andrebbe considerato come una sorta di bizzarro corpo estraneo invece che come un esponente della linea dei Burke e del tre volte candidato alla presidenza Pat Buchanan (che ammette fino ad un certo punto la propria influenza) dice più di come i neoconservatori siano riusciti a imporsi sul conservatorismo ameriKKKano negli anni Sessanta piuttosto che riflettere lo spettro storico di questa corrente di pensiero. Si potrebbe dire che i neoconservatori non sono mai stati conservatori, allo stesso modo in cui i neoliberisti non sono mai stati liberali nel senso comunemente dato a questi vocaboli. Il fatto nuovo è che il presidente eletto sembra aver riunito un nuovo elettorato repubblicano, che ricopre la metà dei votanti ameriKKKani. Questo nuovo elettorato non è formato soltanto da red necks, gli operai bianchi; è interclassista ed interetnico. Anche gli operatori di Wall Street, che si presumevano allineati con i Clinton, pare gridassero entusiasti "in galera" mentre la Clinton pronunciava il discorso in cui riconosceva la sconfitta, e le donne con una formazione universitaria avevano assegnato alla Clinton solo un 6% di margine rispetto a chi aveva votato per Trump.
Potrebbe anche darsi che "[al principio] si intendesse, con questa consultazione elettorale, facilitare il trionfante ritorno del paradigma neoconservatore neoliberale pur presentato in una nuova confezione. Per varie ragioni è stata presa la decisione di assegnare questo ruolo a Hillary Clinton", forse perché veniva considerata in una buona posizione per fondere l'interventismo liberista e le tendenze neoconservatrici insieme alla politica identitaria di stampo clintoniano, o magari perché semplicemente "toccava a lei" diventare presidente. Se le intenzioni erano queste, il fallimento è stato spettacoloso.
Perché il fallimento? Uno degli aspetti dello scontento, come abbiamo avuto già modo di rilevare, attiene al lento declino del nostro modello di crescita finanziarizzato, neoliberista e sostenuto dal debito. Sono stati in molti in America e in Europa a dover fare i conti con una realtà che non prosperità economica ha portato, ma preoccupazioni e - per la prima volta dal dopoguerra - l'idea che le prospettive delle prossime generazioni fossero molto più ostiche e molto peggiori di quanto fossero le nostre.
Ecco una dichiarazione di Naomi Klein, che non è certo una simpatizzante di Trump:
Daranno la colpa a James Comey e allo FBI. Daranno la colpa alle epurazioni dalle liste elettorali e al razzismo. Daranno la colpa a chi diceva "o Bernie o il fallimento", daranno la colpa alla misoginia. Daranno la colpa alle terze parti e ai candidati indipendenti. Daranno la colpa ai grandi mass media per avergli tirato la volata, daranno la colpa ai social per aver fatto da cassa di risonanza, e a WikiLeaks per aver scoperto gli altarini.
Si tace su quello che è il maggior responsabile dell'incubo in cui ci troviamo: il neoliberismo [finanziario]. Dobbiamo capire questo: un sacco di gente sta male. Le politiche neoliberiste di deregulation, di privatizzazioni, di austerità e di commercio d'impresa hanno fatto crollare il loro tenore di vita. Hanno perso il lavoro, hanno perso la pensione. Hanno perso molte delle reti di sicurezza che un tempo rendevano meno preoccupanti evenienze come queste. Per i propri figli vedono un futuro anche peggiore del loro già precario presente.
Nello stesso tempo hanno assistito all'ascesa della classe di Davos, una rete iperconnessa di banchieri e tecnologi miliardari, di leader eletti orrendamente condiscendenti verso questi interessi e di attori di Hollywood che conferiscono a tutto questo un'aria modaiola insopportabile. Il successo è una festa a cui nessuno li ha invitati e saranno in cuore loro che questo potere e questa ricchezza crescenti sono direttamente collegati al crescere dei loro debiti e della loro impotenza.
Per gente che considerava di aver diritto a certe sicurezze e ad un certo status, per lo più si tratta di uomini bianchi, queste le privazioni sono intollerabili.
Donald Trump parla direttamente a questo dolore. La campagna favorevole alla Brexit parla a questo dolore.

Eccone una rappresentazione visiva (fonte: ZeroHedge.com).



Linea blu: quota del reddito interno lordo: retribuzioni dei lavoratori, maturazione di stipendi e salari, pagamenti verso persone.
Scritta in rosso: una tendenza al ribasso lunga quarantasei anni. Le enormi bolle del 1995-2000 e del 2003-2008, alimentate dal credito, sono responsabili di effimere crescite nella quota di reddito interno lordo andata ai lavoratori, il cui declino è ripreso una volta avvenuta la loro esplosione.
Scritta in nero: il reddito interno lordo del 2015 è stato di diciottomila miliardi di dollari. Di questi, il 42,5% sono andati alle retribuzioni. Se la quota fosse stata del 50% si sarebbe trattato di 1350 miliardi di differenza: tredicimilacinquecento dollari in più per ogni famiglia.
Ovviamente, questo non è il caso delle élite cittadine (Fonte: ZeroHedge.com).


Il divario nelle retribuzioni diventa sempre più ampio.
Il grafico mostra il crescente divario, dal 1973 in poi, delle retribuzioni spettanti a uomini che occupano i vertici e quelli che si collocano ai livelli medi.
La linea azzurra è il novantacinquesimo percentile, quella rossa il cinquantesimo.
La casta dei tecnocrati, dei professionisti, della nomenklatura statale contro tutti gli altri.

Il secondo aspetto dell'attuale insoddisfazione è rappresentato dall'oppressione culturale, O, per dirla con la retorica del partito democratico, dalla politica delle identità, che era uno dei capisaldi della base elettorale clintoniana. Le radici del fenomeno sono complicate e vanno rintracciate nelle correnti filosofiche nate in Germania nel corso della seconda guerra mondiale, in qualche modo fuse con il pensiero degli intellettuali trotzkisti ameriKKKani (virati dunque a destra). In buona sostanza questa corrente del pensiero politico mutuò dalla allora nascente disciplina della psicologia il concetto di spianamento della mente umana attuato per mezzo dello shock, o costringendola a diventare una tabula rasa su cui lo psichiatra (o, nel nostro caso, il politico) avrebbero potuto innestare un nuovo programma.
All'epoca l'obiettivo politico da perseguire era l'eliminazione del pensiero totalitario e della programmazione mentale fascista, e la sua sostituzione con un apparato, un circuito, liberal-democratico. Lo US immigration and Nationality Act del 1965 venne promosso da un gruppo di intellettuali di questo orientamento alla luce dell'assunto che concetti come quello di "cultura nazionale" avrebbero perso ogni significato in virtù della diluizione culturale portata dall'immigrazione. Nel corso degli anni Settanta ed Ottanta l'intento cambiò, e diventò quello di imporre l'idea che non esisteva alcuna politica della modernità (la "fine della storia" di Fukuyama) dal momento che ogni azione politica avrebbe in qualche modo ceduto le armi davanti al dominio della tecnica. Si trattava solo di assicurare un efficiente funzionamento al mercato liberale, una cosa che era senz'altro meglio delegare agli esperti.
Sul piano politico eliminare ogni mentalità frutto di precedenti retaggi toccava alla guerriglia culturale condotta dalla correttezza politica. La guerra di classe non godeva più di alcun credito, ma c'erano altre vittime per conto delle quali si poteva combattere: le discriminazioni di genere, il razzismo, la negazione dei diritti degli omosessuali, gli stereotipi sull'orientamento sessuale, le piccole aggressioni verbali, il linguaggio sessista, o qualunque idea o espressione che ledesse il senso individuale di "spazio sicuro" sono stati utilizzati come strumenti per eliminare i vecchi cespugli di cultura nazionale ereditata e per aprire la strada ad un mondo globalizzato a guida ameriKKKana.
L'elemento ostentato che riuniva tutte queste "guerre" condotte in nome delle vittime era il fatto che il loro contrario veniva fatto risalire al fascismo o ad un qualche altro autoritarismo. Il problema, in questo, è che qualunque lavoratore ameriKKKano bianco che frequentava la chiesa, credeva alla vita familiare e si dimostrava patriottico diventava un potenziale fascista, un potenziale razzista, un potenziale sessista, un potenziale intollerante.
Molta gente comune in AmeriKKKa ed in Europa non apprezza questa guerra culturale che la fa finire (per dirla con la signora Clinton) nel "'mucchio dei detestabili'. Va bene? Razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, islamofobi, chiamateli come vi pare" e che guarda al loro ambiente di tutti i giorni come ad un qualche cosa che le élite della costa statunitense considerano un qualche cosa da saltare a piè pari. Insomma, i detestabili sono di molto aumentati di numero. La colpa non è del linguaggio salace di Donald Trump: è stato un intero settore dell'elettorato a tapparsi il naso a fronte della correctness e di cosiddette sensibilità da mammolette. La scorrettezza politica di Trump ha toccato corde di risentimento profonde nella società tradizionale ameriKKKana.
L'AmeriKKKa dei saltati a piè pari non è offesa solo per esser stata intruppata tra i detestabili. Percepisce con chiarezza il disprezzo che le riservano le élite ameriKKKane ed europee e non tollera l'arroganza con cui queste élite le fanno sapere che esiste un solo modo razionale e riguardoso di fare le cose, e che sono loro stesse, le élite di esperti e del giro di Davos, che devono dire a tutti quanti noi come stanno le cose, nonostante vengano da decenni di fallimenti.
Gli animi si sono riscaldati da ambo le parti. Per avere un'idea dei toni aspri con cui sarà combattuta la guerra culturale, si ascolti questo audio che viene da una petizione appena lanciata dalla piattaforma di mobilitazione populista Avaaz, parzialmente finanziata da Soros e collegata all'organizzazione ameriKKKana Move On. "Caro signor Trump, non è grandezza la tua. Il mondo rifiuta i tuoi timori, il tuo fomentare odio, la tua intolleranza. Noi rifiutiamo il tuo sostegno alla tortura, i tuoi appelli all'uccisione di civili, il tuo generale incoraggiare la violenza. Noi rifiutiamo la tua denigrazione delle donne, dei musulmani, dei messicani, dei milioni di altre persone che non ti somigliano, che non parlano come te, che non pregano lo stesso dio. Invece delle tue paure noi scegliamo la misericordia; invece della tua disperazione scegliamo la speranza; invece della tua ignoranza scegliamo la comprensione. Cittadini del mondo, siamo uniti contro l'arma della tua divisione."
Insomma, tra Brexit e vittoria di Trump, stiamo assistendo ad un giro di boa epocale. A metà ottobre scrivevamo, citando il filosofo politico britannico John Gray:
 Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.

Se Gray ha ragione ad affermare che quando l'economia globalizzata passa un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
Insomma, non pare proprio che il mondo stia andando nella direzione auspicata da Avaaz. Sembra anzi che la tendenza sia a mettere avanti a tutto la riscoperta dello stato, della sovranità statale e dell'impegno dello stato nel perseguimento di politiche economiche adatte al particolare contesto di ciascun paese, e verso la sostanziale responsabilità dello stato per il benessere della comunità nella sua interezza.
Dunque, cosa significa questo dal punto di vista geostrategico? Trump sarà capace di aprire una nuova epoca? Nell'immediato si può rispondere che questa nuova epoca sembra presagire un periodo di volatilità politica, di volatilità finanziaria e, per l'Europa ed il Medio Oriente, la prospettiva di shock politici prolungati.
Il signor Trump non è un globalista, chiaramente. Chiaro è anche il fatto che è consapevole di alcuni dei rischi delloa politica monetaria globale oggi attuata. Ha detto che la Fed statunitense ha creato "gran brutte bolle" e che il "barattolo" rappresentato dalla crisi economica e finanziaria "è stato spinto a calci lungo la via" dal Dottor Yellen e che con esso dovrà vedersela chiunque diventi presidente il 20 gennaio.
Il fatto è che trent'anni di politiche di crescita basate sul debito e sulla finanza mettono sostanzialmente all'angolo il presidente eletto: il debito globale è diventato una spirale, le bolle sono ancora lì (tenute in vita dall'intervento coordinato della Banca centrale) ed è nota la loro tendenza ad esplodere senza troppa delicatezza; gli interessi a zero o addirittura negativi stanno minando molti modelli economici, ma non possono essere abbandonati a cuor leggero senza mandare in frantumi il mercato dei titoli di Stato; il quantitative easing (la stampa di denaro) sta sistematicamente erodendo il potere di acquisto dei consumatori diluendo continuamente il potere di acquisto da esso stesso prodotto e la deviazione di esso dalla sua destinazione originaria al settore finanziario - che fa lievitare il valore dei titoli- non crea alcuna ricchezza tangibile.
L'AmeriKKKa e l'Europa si trovano effettivamente in una fase di deflazione. Come fare a far crescere i redditi in modo che i produttori di beni e servizi possano anche permettersene l'acquisto? Secondo Trump si deve investire su progetti infrastrutturali in patria. Questo può essere un aiuto ma è improbabile che in sé riuscirà a sollevare e a mandare avanti l'intera economia statunitense. Il dato di fatto è che non esiste alcun motore della crescita universalmente valido (specie adesso che la rivoluzione industriale cinese sembra giunta per lo meno ad un punto morto). Ogni paese sta cercando nuovi motori di crescita. Non è facile pensare che l'Europa o l'AmeriKKKa riusciranno a ricreare tutti i posti di lavoro perduti nel corso del processo di globalizzazione. Anzi, nel tentativo di provarci potrebbe di per sé far ulteriormente precipitare il commercio mondiale e giungere per questo a risultati di conseguenza inferiori.
In breve, l'economia mondiale potrebbe anche attraversare un breve periodo di luna di miele grazie ad un probabile aumento momentaneo della indulgenza statunitense in materia fiscale e di un concomitante alleggerimento psicologico, che nascerebbe dal fatto che perlomeno il settore delle costruzioni negli Stati Uniti conoscerebbe qualcosa di simile ad un boom. Alla fine però la crisi sostanzialmente economica che il signor Trump prevede potrebbe rivelarsi l'unico modo per tagliare il nodo di Gordio in cui ci hanno intrappolato tre decenni di indebitamento e di immissione di denaro senza precedenti. Se sarà lui a dover attraversare la crisi che si profila, il signor Trump dovrà ignorare la voce da sirena delle élite che non farà che dirgli che non ci sono alternative se non l'andare avanti come prima.
Il campo in cui il signor Trump potrebbe cercare un successo immediato e relativamente alla portata può essere quello della politica estera. Come Nixon andò in Cina, Trump può andare in Russia e in Cina e cominciare a trattare entrambi paesi come paesi normali con i quali è possibile trovare interessi comuni, così come è possibile trovare temi oggetto di contesa. Questo sarebbe rivoluzionario. Potrebbe cambiare la mappa geostrategica. Come spesso ripete il Presidente Putin, la porta è aperta.
Almeno per il momento.
In politica nulla dura per sempre.