domenica 22 novembre 2015

Gli Stati Uniti scorgono qualche opportunità nella situazione in Siria?


Traduzione da Conflicts Forum.

In politica quando gli eventi deviano dai copioni noti o dai binari stabiliti è bene chiedersi perché questo succede: magari questo discostarsi dalla rotta prevista indica un mutamento più profondo a livello geopolitico di quanto una superficiale presa d'atto degli eventi potrebbe suggerire.
Il 30 ottobre 2015 a Vienna l'assemblea dei paesi esteri che reclamano un ruolo nel conflitto siriano si è trovata d'accordo su una sorprendente serie di punti di principio. Tra l'altro, hanno statuito l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale ed il carattere laico della Siria. Basta con la divisione del paese, lungamente caldeggiata: le istituzioni dello stato siriano devono rimanere intoccabili. Ancora più notevole è il fatto che la dichiarazione congiunta non fa alcun riferimento ad un "governo di transizione". Si limita ad invitare l'ONU ad adoperarsi per un processo politico che conduca ad una nuova costituzione e a nuove, libere e democratiche elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. La dichiarazione inoltre afferma che "il processo politico, ancorché supervisionato dall'ONU, sarà condotto dai siriani e controllato dai siriani; il futuro della Siria sarà deciso dal popolo siriano". Il futuro ruolo del Presidente Assad è stato puramente tralasciato ed è ancora oggetto di discussione.
Se questi sono i fatti, i principi stabiliti a Vienna fanno pensare ad un risultato di tutto rispetto per la diplomazia russo-iraniana e per la condiscendente co-presidenza dell'assise di John Kerry e Sergej Lavrov. Dunque? Sir Arthur Conan Doyle, in una delle sue storie di Sherlock Holmes del 1892 in cui si racconta di un assassinio articolò la trama attorno ad un particolare saliente:
Gregory (investigatore di Scotland Yard): "C'è qualcosa d'altro cui dovrei fare attenzione, secondo lei?"
Holmes: "Sì: la strana cosa successa al cane durante la notte."
Gregory: "Ma il cane non ha fatto niente, durante la notte."
Holmes: "Appunto: la cosa strana è proprio questa."
Nella notte viennese c'è stato forse qualche cane che è rimasto inattivo? Sicuramente. Si chiama "clientite": il parlare compulsivamente in nome degli espliciti obiettivi politici dei propri clientes, anche quando non corrispondono ai propri. Si tratta di una malattia che nel caso degli USA è iniziata ai tempi della prima guerra del Golfo, quando i neoconservatori a Washington marchiarono i paesi arabi baathisti, nazionalisti e laici come "burattini sovietici" e nemici dello stato sionista. Tutte vestigia dello scomparso potere sovietico che bisognava spazzar via, affermavano gli emuli di David Wurmster, per sostituirle con più accomodanti monarchie come quella hashemita o quella dei Saud (si veda qui). Di conseguenza lo stato sionista e le monarchie del Golfo persico sono diventati automaticamente clientes degli USA, cosa mai successa prima, neppure dopo il ritiro dei britannici dal Golfo nel 1971. Dapprincipio gli Stati Uniti avevano lasciato cadere l'esplicito invito a farsi successori della Gran Bretagna.
Il patto era che in cambio della loro assimilazione all'impero -quello della benevola egemonia statunitense- i clientes avrebbero ricevuto protezione e stabilità dagli USA e avrebbero in cambio concesso agli Stati Uniti i mezzi per proiettare il loro "ordine" mondiale tramite il disseminamento di basi militari e l'integrazione dei clientes nelle reti di servizi occidentali. In altre parole i clientes avrebbero agevolato l'AmeriKKKa nel suo ruolo di tutore dell'ordine mondiale di cui essa stessa era autrice, ed avrebbero avuto come contropartita la garanzia del loro status quo.
Il problema è che all'atto pratico questa "assimilazione" ha portato anche al fatto che gli USA facessero propri gli obiettivi politici dei clientes. La clientite è appunto questo rimanere inchiodati agli obiettivi politici altrui anche quando corrispondono poco ai propri e vi corrispondono sempre meno. L'espressione indica la paralisi politica che segue dal fatto che non si è capaci di prendere le distanze o di disconoscere le ambizioni politiche dei propri clientes, dal tmore concreto di finire sotto accusa per aver indebolito la capacità dell'AmeriKKKa di comportarsi come benevolo egemone o poliziotto a livello globale e dunque di essere colpevoli di aver accelerato il "declino" ameriKKKano.
Ecco di cosa si parla, quando si parla di una "strana cosa successa al cane durante la notte": John Kerry, e con lui tutti gli altri, non hanno fatto una piega quando il Ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir è stato preso a pesci in faccia dal suo collega iraniano. Il Segretario statunitense si è guardato bene da far suoi gli obiettivi politici di Jubeir, il che significa che Kerry sembra sia riuscito a scuotersi dalla paralisi indotta dalla clientite.
Cosa significa questo? Forse che Zarif, il Ministro degli Esteri della Repubblica Islamica dell'Iran, può rammentare senza giri di parole agli astanti che quindici dei diciannove attentatori dell'undici settembre 2001 erano cittadini sauditi, e chiedere con quale diritto l'Arbia Saudita si arroga il privilegio di decidere chi dovrebbe diventare Presidente della Siria, intanto che Kerry, il suo collega francese e il suo collega britannico se ne stanno zitti. Gli accordi raggiunti dai "cinque più uno" stanno già riplasmando il panorama politico mediorientale, non fosse che per il fatto che l'Iran adesso è una potenza che va considerata con serietà. Per il Ministro degli Esteri saudita dev'esser stato un brutto colpo, abituato com'era ad un'acquiescenza predssoché completa degli occidentali verso gli interessi del suo paese (grazie al suo denaro).
Washington potrebbe non essere in grado di disconoscere pubblicamente i suoi clientes, nonostante i loro interessi e le loro azioni divergano marcatamente dai suoi, ma a Washington ci sono comunque persone in grado di percepire le debolezze altrui: persone magari disposte a lasciarli cuocere nel loro brodo.
L'indebolirsi dell'Arabia Saudita è evidente: l'aggressione allo Yemen è un disastro da cui non riuscirà a sganciarsi facilmente. E anche se il regno dei Saud riuscisse a trovare il modo di uscire da quel ginepraio, dovrà farlo senza dubbio pagando un prezzo umiliante, che potrebbe anche contemplare dei rischi gravissimi per Mohammed bin Salman, di fatto il leader del paese. La doviziosità del regno saudita poi sta finalmente mostrando il fondo e le sue risorse petrolifere sono più una minaccia per l'industria petrolifera statunitense che un suo cespite.
Anche la Turchia è impelagata in una crisi che non fa che approfondirsi, ed in cui si è cacciata con le sue mani.
Il 4 novembre il Presidente Erdogan ha caldeggiato il proseguimento degli attacchi contro il PKK, fino a quando l'ultimo combattente "non verrà liquidato". Il giorno dopo il PKK ha risposto dichiarando la fine del cessate il fuoco.
Sia la Turchia che l'Arabia Saudita si stanno indebolendo dal punto di vista geostrategico, e questo ci riporta alla situazione in Siria. Sembra possibile che l'appoggio dato da Kerry ai principi stabiliti a Vienna (forse sotto la guida di Lavrov) rifletta la probabilità che qualcuno nell'amministrazione stia cominciando a presentire l'idea che l'AmeriKKKa riesca a raggiungere un accordo che tirerebbe la volata alla presidenza Obama: una soluzione politica a Damasco e in più l'indebolimento dello Stato Islamico in Siria. Un'altra tacca sul calcio del fucile, dove già c'è quella corrispondente all'aver preso lo scalpo di Bin Laden.
E' interessante notare che l'amministrazione sta mostrando una certa impazienza verso un maggior coinvolgimento, almeno simbolico, nella guerra contro lo Stato Islamico. Alla base c'è soltanto il desiderio di non farsi surclassare da Putin, o forse Kerry vuole getare le basi per poter vantare un qualche progresso statunitense in Siria facendo credere che l'AmeriKKKa può ancora avervi un ruolo importante sia sul piano militare che su quello diplomatico (facendo squadra con i russi)? Forse a premere per questo ripensamento c'è il fatto che i cittadini statunitensi si dice stiano prendendo d'aceto per come Obama si è comportato con lo Stato Islamico fino ad oggi. Un sondaggio pubblicato l'altro giorno dalla Associated Press indica che oltre sei cittadini su dieci non sono più d'accordo su come il Presidente Obama sta affrontando la minaccia che lo Stato Islamico rappresenta.
Per Kerry non sarebbe un problema troppo grosso -e questo Lavrov l'ha sicuramente compreso nei suoi calcoli- caldeggiare elezioni libere e supervisionate dalla comunità internazionale sia in Siria che fuori: sarebbe ameriKKKano come la torta di mele. E chissà che tra qualche mese, con l'opposizione siriana già profondamente coinvolta in un processo politico intanto che l'offensiva militare ridimensiona lo Stato Islamico, con l'Arabia Saudita ancora più in crisi e Jubeir ancora più isolato gli appelli dei sauditi perché si inizi con il ritiro delle truppe russe ed iraniane e con la cacciata del Presidente Assad non vengano semplicemente ignorati.
Il signor Putin sa come sbrigarsela in questi casi: il 4 novembre aveva già cominciato a cercare Erdogan. L'idea è quella di convincere i turchi e i sauditi che non hanno alcuna speranza di ottenere tutto quello che vorrebbero, ma che continuando a far parte del processo magari riusciranno ad ottenere qualcosa, che è sempre meglio che uscirne umiliati.
Patrick Cockburn ha scritto che esiste anche un'altra realtà. "Benché al mondo esistano molti più sunniti che sciiti, in Medio Oriente le cose non stanno così. Tra l'Afghanistan ed il Mediterraneo ci sono più di cento milioni di sciiti, e trenta milioni di sunniti". La pretesa dell'Arabia Saudita secondo cui tutti gli stati ivi compresi con l'eccezione dell'Iran fossero e siano a tutt'oggi parte per natura di un blocco arabo e sunnita centrato sul Golfo Persico, e che la politica dovesse riflettere questo dato di fatto, ha poco senso. La Siria è a tutti gli effetti l'unico paese dell'area in cui esista una maggioranza sunnita. E se il Ministro degli Esteri saudita intende parlare in termini settari di sunniti contro sciiti -un quadro che non è appropriato per la Siria- non si capisce che problema dovrebbe esserci in caso di consultazioni elettorali: se i sunniti sono già la maggioranza, con l'occasione dimostreranno il loro peso. E' difficile ritrarre i sunniti della Siria come se fossero una "minoranza tenuta ai margini".
Kerry si sta muovendo in generale tenendo presente il fatto che Obama non vorrebbe si toccassero la narrativa e lo eccezionalismo statunitensi, e neppure la "benevola missione" degli USA: si dovrebbe invece tenere a freno la bramosia ameriKKKana senza tanto chiasso, in via amministrativa, mantenendola all'altezza dei suoi effettivi mezzi.
In questo senso, come altro dovremmo considerare i perentori avvertimenti statunitensi verso l'Arabia Saudita affinché la smetta con la guerra nello Yemen ("O ci pensate da soli o saremo costretti a farlo noi al posto vostro"), l'atteggiamento silenzioso di John Kerry a Vienna, l'articolo alla dinamite che Tom Friedman ha scritto sul New York Times nei giorni della visita di re Salman negli USA, la ritrovata propensione dei media ameriKKKani a pubblicare ripugnanti e dettagliate cronache sugli inciampi dei principi sauditi sul sentiero della moralità? Sembra chiaro che i sauditi non sono più esenti dalle censure e dalle critiche.
Quanto successo a Vienna fa pensare che l'effetto indiretto degli accordi dei "cinque più uno" sia quello di una ridefinizione macroscopica del panorama regionale: un processo che è già in corso.

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