venerdì 25 settembre 2015

Medio Oriente. Una interpretazione dei mutamenti strategici in atto.



Traduzione da
Conflicts Forum.

Sembra proprio, fatti salvi i margini di incertezza che sono una costante del mondo di oggi, che il Presidente Obama abbia accolto le suppliche dei senatori democratici e abbia promesso il veto per ogni risoluzione negativa che possa venire dal Congresso: senza dubbio le schermaglie legislative destinate ad intralciare le questioni iraniane andranno avanti, vigorosamente sostenute da quanti si oppongono all'accordo sul nucleare raggiunto dai "cinque più uno" e dai loro amici nello stato sionista; dal canto suo l'Arabia Saudita continuerà a lamentare ancora più forte il terrorismo iraniano per caldeggiare nuove ondate di sanzioni. Ma in buona sostanza, cosa comporta l'accordo raggiunto con l'Iran?
In due parole, esso implica un mutamento epocale. Il panorama mediorientale ne uscirà completamente cambiato. L'accordo apre la strada ad interpretazioni della politica e degli eventi del tutto diverse, fino ad oggi tenute fuori dal mainstream mediatico e faciliterà cambiamenti nel sentire politico in un significativo numero di stati sovrani. Cambiamenti attesi molto a lungo.
In parecchi dei suddetti stati potrebbe finalmente togliere di mezzo le vecchie tiritere della politica estera da guerra fredda, occidentali e neoconservatrici, secondo cui in diplomazia non si deve mai concedere nulla all'avversario ma anzi si deve darci dentro con ogni genere di angheria economica e militare fino a quando l'avversario non schianta o non viene rimpiazzato (o rimpiazzata) da un "uomo del Bilderberg".
Per qualcosa come trentacinque anni dal 1979 in poi i paesi mediorientali che godono di credito in Occidente -lo stato sionista e i paesi del Golfo- hanno insistito perché si tagliasse la testa alla vipera iraniana, per dirla con le parole dell'ultimo re saudita, o perché si bombardasse il paese, come pretenderebbe lo stato sionista fin dai tempi della sconfitta elettorale dei laburisti nel 1996. E se proprio non si poteva, che almeno lo si ingabbiasse, lo si isolasse totalmente dal resto dal mondo e lo si riducesse ad un paria. L'Occidente si è mostrato contento di far propria questa istanza, dopo il colossale imbarazzo del Presidente Carter per la vicenda degli ostaggi all'ambasciata statunitense di Tehran. Solo che si è trattato di una linea politica molto costosa da seguire.
Ovviamente, l'Iran non si è fatto mettere in gabbia senza recalcitrare e specialmente dopo esser stato incasellato nell'"asse del male" da Bush ha messo in piedi un bell'ensemble di insofferenti alla subordinazione. Per tutto questo tempo, lo scontro fra due dinamiche opposte non ha fatto che inasprirsi. Da una parte il Golfo, sempre più timoroso nei confronti del "fronte della resistenza" e sempre più propenso ad invocare misure di isolamento sempre più drastiche. Dall'altra un Iran sempre più ostinato nei tentativi di trovare vie di fuga tra una sbarra e l'altra e di uscire dall'angolo. Il tentativo di stabilire una dinamica in cui il potere stava da una parte sola, dove per gli uni c'erano solo costrizioni e umiliazione e per gli altri c'era il riconoscimento pieno dello status di alleati e il diritto di stabilire come stavano le cose, ha fatto germogliare conflitti di resistenza e di reazione in tutto il Medio Oriente.
Una delle principali conseguenze di tutto questo è stato che la regione ha inziato ad essere vista e dunque interpretata in Occidente secondo l'ottica dei paesi del Golfo e di quella dello stato sionista, sempre più coincidenti. L'Occidente ha scatenato delle guerre che hanno rispecchiato vecchie ruggini regionali o colpito gli orticelli personali come quello di Gheddafi, più che servire ad un'autentica definizione degli interessi occidentali.
Ed ora, ecco che l'Iran ha il suo momento. Non è chiaro se gli Stati Uniti continueranno a cercare di circoscriverne l'influenza in qualche altro modo anche dopo la ratifica dell'accordo: oggi come oggi per tutto il resto del mondo l'Iran è alla ribalta. Il suo status di potenza regionale rappresentava già un dato di fatto, e adesso è da tutti riconosciuto. La cosa, sicuramente, cambierà il bilancio dei poteri in Medio Oriente a detrimento dei paesi del Golfo e dello stato sionista. Per la prima volta dopo decine di anni un certo modo di intendere il Medio Oriente perderà il proprio diritto al sostegno garantito e troveranno posto anche altre concezioni, altre versioni sugli eventi regionali. Dopo molto tempo ricominceremo a vedere che ogni evento ha un aspetto molteplice.
Ad essere ancora più significativo è il fatto che il riconoscimento dello status di potenza regionale per la Repubblica Islamica dell'Iran avviene in un momento in cui il mondo sunnita è in crisi; una crisi che non è stata creata dall'Iran in quanto tale ma dal lungo crollo del "sistema arabo", e della parallela crisi intrinseca al mondo sunnita. A prescindere dalle circostanze, l'accordo raggiunto con l'Iran rappresenta il trionfo del Presidente Obama sull'approccio distruttivo alla diplomazia che caratatterizza i neoconservatori e i neoliberisti; per questo la cosa ha un'importanza simbolica di per sé. L'Occidente è dovuto venire a patti con uno stato sovrano che si oppone nettamente al preteso "eccezionalismo" degli Stati Uniti ed alle loro pretese di egemonia regionale secondo la dottrina Carter. Ovviamente questo non significa essere antioccidentali tout court.
Al centro dei timori dei paesi del Golfo e dello stato sionista c'è proprio questo. Per tutti questi anni i paesi del Golfo hanno potuto delegare la propria politica estera, appoggiandosi pesantemente agli USA e all'Europa, sicuri di aver diritto a canali privilegiati in quante parte del campo occidentale. Oggi però l'accordo con l'Iran ha permesso l'effettivo rafforzarsi di un altro ethos politico: i paesi non occidentali hanno il diritto di essere non occidentali, nelle varie accezioni che il concetto può assumere. Iran, Russia e Cina si adoperano tutti in quest'ottica, sia pure secondo modalità molto differenti. Può sembrare che l'idea di appartenere ad una non meglio definita "sfera non occidentale" abbia in sé qualcosa di astratto, ma possiamo considerarla meno significativa dell'insistere sulla propria "europeicità" da parte di un'Europa in cui ci sono divergenze tanto profonde?  
Per più versi, che coloro che appartengono al "non occidente" abbiano il diritto di essere "non occidentali" ciascuno a suo modo è un concetto che potrebbe rivelarsi dotato di maggiore concretezza di quanta non ne abbia il costrutto di "europeicità" degli stati europei. Oggi, il fatto di essere "non occidentali" all'ombra di una supremazia rusa e cinese viene associato in misura sempre maggiore al proteggersi dall'egemonia direttiva sulla finanza e sul commercio mondiali esercitati dalla potenza degli Stati Uniti -più che dalla loro egemonia militare- oltre che dalla stretta ideologica rappresentata dall'approvazione di Washington. Si tratta, in altre parole, di una riappropriazione di sovranità economica, dell'abbandono dei legami imposti dalla finanza mondiale (le cosiddette treasury wars) in favore di una sfera commerciale sicura, libera dalla minaccia di sanzioni e dell'esclusione da tutti i meccanismi della finanza.
L'espressione "non occidentale" può anche sembrare piuttosto astratta, ma le intenzioni dei "non occidentali" sono concrete e sono costituite da una praticissima scaletta di interessi in comune: i paesi "non occidentali" intendono realizzare un sistema commerciale e finanziario parallelo fuori dalla portata delle pretese di giurisdizione degli Stati Uniti, che al momento attuale riguardano più di seimila istituzioni finanziarie e bancarie.
In questo momento, e paradossalmente, l'Unione Europea sta andando nella direzione opposta, centrando il proprio sistema finanziario su un sistema che subordina la direzione dell'economia globale al benestare di Washington.
E qui iniziano i problemi. Di fatto Obama, negoziando con uno stato che si oppone senza mezzi termini ad ogni tipo di egemonia statunitense, ha fatto passare il concetto che la vecchia dottrina per il Medio Oriente formulata da Lord Curzon e poi inglobata nella dottrina Carter[*] sia ampiamente giunta a scadenza. Inoltre, così com'è è una dottrina che non si addice più ai fini economici e militari degli Stati Uniti in un mondo ormai cambiato. Il presidente degli USA lo ha capito ed è stato chiaro: con l'Iran o si va al negoziato o si va alla guerra, e la guerra non la vuole nessuno ad eccezione di Netanyahu. Tenergli il fiato sul collo non è servito a nulla.
Tutto questo lascia chiunque abbia passato decine e decine di anni ad abbuffarsi alla più importante greppia occidentale in una situazione in cui dominano ansia e senso di precarietà. Questo cambiamento di rotta nella diplomazia statunitense potrebbe rivelarsi di per sé significativo come quello operato dopo il secondo conflitto mondiale dalla Gran Bretagna, che decise di abbandonare le vecchie élite indiane. Bruce Reidel centra la questione quando scrive che oggi come oggi non c'è comunanza di interessi tra USA ed Arabia Saudita, e che i due paesi stanno prendendo ciascuno la sua strada. Certo, a Washington non metterebbero mai la cosa in questi termini, anzi direbbero il contrario: per le vecchie colonie garanzie di sicurezza e buoni del tesoro di qui all'eternità, come fece Mountbatten in un'altra epoca in cui a cambiare erano gli interessi ed anche le capacità del Regno Unito.
All'indomani di una visita ufficiale di re Salman negli USA Tom Friedman -che è noto per i suoi ottimi rapporti con la Casa Bianca- si è prodotto nell'epitaffio della vecchia amicizia, e non è certo possibile che si tratti di una coincidenza. Friedman ha scritto sul NY Times quello che la diplomazia non ha permesso ad Obama di dire in faccia al re saudita:
"Se pensate che l'Iran sia l'unica fonte di problemi in Medio Oriente, si vede che l'undici settembre dormivate: quindici dei diciannove dirottatori venivano dall'Arabia Saudita. Nulla ha fatto più male alla stabilità e alla modernizzazione del mondo arabo e del mondo islamico in generale delle carrettate di miliardi di dollari che i sauditi hanno investito dagli anni Settanta in poi per spazzar via il pluralismo dall'Islam -i sufi, i sunniti moderati, le diverse tendenze dell'islam sciita- per imporre al suo posto l'islam salafita e wahabita puritano, antimoderno, antifemminile ed antioccidentale promosso dall'establishment religioso del loro paese.
Non è certo un caso che migliaia di sauditi si siano uniti allo Stato Islamico, o che le organizzazioni caritatevoli dei paesi del Golfo gli abbiano elargito donazioni. Tutti gli jihadisti di ispirazione sunnita -lo Stato Islamico, Al Qaeda, il Fronte an Nusra- sono i frutti ideologici dello wahabismo inoculato dall'Arabia Saudita nelle moschee, dal Marocco al Pakistan fino all'Indonesia.
Noi, in USA, non abbiamo mai chiamato l'Arabia Saudita a rendere conto di tutto questo. Noi siamo dipendenti dal loro petrolio, e un tossicodipendente non dice mai la verità al suo spacciatore".
In questo mutamento di prospettiva il problema è che dopo il raggiungimento di un accordo da parte dei "cinque più uno" quanti pensano che Iran, Russia e Cina dovrebbero mostrarsi più condiscendenti e più accomodanti nei confronti di quella che l'Arabia Saudita considera una soluzione alla questione siriana potrebbero rimanere delusi. Per l'Iran, la Russia e la Cina la sconfitta dello jihadismo radicale armato è questione di primario interesse nazionale, e la Siria in questa guerra rappresenta la trincea di prima linea. La Guida Suprema e il ministro degli esteri Lavrov hanno di recente rilasciato una dichiarazione che fa pensare ad un rafforzarsi dell'appoggio fornito allo stato siriano nella guerra contro lo jihadismo, e non certo il contrario. In altre parole, invece che mostrarsi accomodanti, i "non occidentali" sembra si sentano più forti. Ancora una volta, questo non significa affermare che siano antioccidentali per partito preso: i "non occidentali", semplicemente, sono in disaccordo con l'Occidente su questioni fondamentali che riguardano i loro interessi.
Pat Lang è stato un funzionario civile di alto livello nei servizi segreti dell'esercito statunitense e facendo riferimento alle proprie fonti a Washington afferma a proposito dei resoconti mediatici sull'arrivo di una componente aerea russa in Siria che "il governo statunitense crede che la Russia abbia deciso di alzare il livello del proprio intervento nella guerra civile siriana, e dei connessi rischi. I motivi e la consistenza di questo accresciuto coinvolgimento non sono ancora chiari". Lang suppone che "abbiamo motivo di credere [questo, secondo le fonti cui Lang ha accesso] che i russi piazzeranno unità aeree in Siria [esistono resoconti credibili sulla consegna all'aeronautica militare siriana di sei Mig 31 ordinati nel 2007] per fornire supporto aereo ravvicinato all'esercito siriano. I russi costruiranno un'altra base navale sulla costa siriana nella zona di Latakia... Questa base potrebbe avere molte funzioni utili, ma è ovvio che ad una maggiore presenza russia corrisponde il bisogno di vie di approvvigionamento più ampie in grado di accogliere le merci trasportate via mare. Per una presenza corposa, l'aviotrasporto non è mai sufficiente". Inoltre, Lang scrive:
"Diventa sempre più chiaro che la sola presenza di missili da difesa Patriot controllati da personale della NATO nella provincia turca dello Hatay si è rivelata un fattore significativo per permettere ad an Nusra (Al Qaeda) di impadronirsi della provincia siriana di Idlib e della zona della provincia di Aleppo posta a nord del capoluogo. Facile capire come sono andate le cose. I radar delle batterie di Patriot hanno una portata che va ben al di là della frontiera tra Turchia e Siria. Gli aerei militari siriani che entrano in questo spazio aereo vengono rilevati da questi radar. Per ogni pilota militare essere individuato da un radar che acquisisce bersagli per conto di una batteria antiaerea è qualcosa di profondamente scoraggiante. Quindi, l'aviazione siriana non ha avuto un ruolo rilevante nel cercare di fermare l'avanzata jihadista nella zona [il nord della Siria e Kobane]. E questo è proprio quello cui Erdogan stava pensando quando ha chiesto che la difesa aerea della NATO si schierasse alla frontiera turca" [Si noti che lo schieramento dei missili è iniziato nel gennaio del 2013].
Noi di Conflict Forum prendiamo atto del fatto che i missili Patriot, a seguito di un accordo tra russi e statunitensi, verranno ritirati dalla Turchia meridionale e ridispiegati in Lituania. Sembra anche che il discusso accordo del generale Allen sulla zona a divieto di sorvolo verrà riconsiderato, alla luce di una cooperazione russo-statunitense. L'invio dei Mig 31, che sono degli intercettori sofisticati e non aerei per il supporto ravvicinato, punta chiaramente a respingere il tentativo della Turchia di instaurare una no-fly zone di fatto lungo il confine nord della Siria. Si afferma anche, e sono affermazioni credibili, che la Russia stia fornendo alla Siria immagini satellitari. Anche questo rappresenta un rovesciamento della situazione: erano i ribelli siriani a ricevere dalla NATO immagini in tempo reale, in un flusso che adesso si è interrotto e che passava presumibilmente dalla Turchia, mentre le forze regolari nulla ricevevano dalla Russia.
Come scrive Patrick Bahzard, "Fin dall'inizio della guerra civile in Siria i russi hanno detto con chiarezza che non avrebbero tollerato che si ripetesse quanto successo in Libia. Già nel 2013 funzionari russi avevano rilasciato molte dichiarazioni in cui si dicevano formalmente contrari all'instaurazione di una zona a divieto di sorvolo. Alcune dichiarazioni in cui il Presidente Putin si esprimeva in proposito senza mezzi termini avevano tolto ogni dubbio circa l'intenzione dei russi di opporsi attivamente a qualsiasi sviluppo in quella direzione".
Qui a Conflicts Forum non pensiamo che la Russia intenda intervenire massicciamente in Siria perché questo incrinerebbe gli accordi con Washington. Pensiamo che non sarà in ogni caso necessario. L'arrivo dei Mig 31, di nuovi armamenti, di apparati per la visione aerea notturna, di personale russo per il supporto a terra e la fornitura di immagini satellitari dovrebbero essere sufficienti a rovesciare le sorti della guerra. Con questo non si intende dire che Turchia ed Arabia Saudita non cercheranno di lanciare un'altra ondata di jihadisti in Siria attraverso la frontiera settentrionale, stavolta composta per lo più di combattenti turkmeni.  
I profondi mutamenti strategici in corso nella regione all'indomani dell'accordo con l'Iran hanno implicazioni portentose. Per l'Arabia Saudita le cose sono chiarissime: il corsivo di Tom Friedman descrive l'aria che tira. La Russia, in coordinamento con gli USA pur con tutti gli evidenti limiti che un coordinamento ha in simili casi, manderà all'aria ogni calcolo fatto sul conflitto in Siria. La guerra dei sauditi nello Yemen sta diventando una palude, proprio come le loro iniziative in Libia. Dal punto di vista politico e dal punto di vista economico il regno ha fatto il passo più lungo della gamba, e sta mostrando vulnerabilità significative.
La frase con cui Tom Friedman chiude il suo articolo, "Noi, in USA, non abbiamo mai chiamato l'Arabia Saudita a rendere conto di tutto questo. Noi siamo dipendenti dal loro petrolio, e un tossicodipendente non dice mai la verità al suo spacciatore" non corrisponde più alla verità. E' la produzione di greggio saudita che danneggia oggi l'industria statunitense del fracking. Paradossalmente, l'acclamatissima e crescente autosufficienza energetica degli Stati Uniti potrebbe respirare, se la produzione saudita per un motivo o per l'altro non raggiungesse i mercati. Il grande, autentico cambiamento è questo. 
 

[*] "[Ci serve una] facciata araba, governata e amministrata sotto guida britannica, controllata da maomettani del posto e nella misura del possibile da personale arabo... Il territorio conquistato non dovrebbe essere oggetto di una vera e propria annessione da parte del conquistatore; il suo assorbimento può essere coperto da artifici costituzionali e prendere la forma di un protettorato, di una sfera di influenza, di uno stato cuscinetto e così via".

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