venerdì 10 luglio 2015

Alastair Crooke - Il giocoliere ha rotto un piatto: Obama e la caduta di Ramadi



Traduzione da Conflicts Forum.

Il piatto che si è rotto, qui, è Ramadi. E il giocoliere è il Presidente Obama, intento alla giocoleria del "bilancio dei poteri" in Medio Oriente dove invece delle maniere forti ha cercato di andare un po' in sordina, cercando di imporre un'altra piega ad eventi che stanno trascinando l'AmeriKKKa verso circostanze in cui dovrà usare massicciamente il proprio apparato militare. La dottrina militare di Obama, sostanzialmente, è questa. Esiste poi un'altra giocoleria che va in conflitto con la prima ed in cui Obama è parimenti impegnato. Si tratta del gioco dei poteri a Washington. Per raggiungere i suoi scopi in Medio Oriente Obama può anche andare di sordina in caso di paesi particolari o dei loro vertici, ma è chiaro che alcuni stati mediorientali (non soltanto lo stato sionista) hanno messo in campo un simile potenziale e lo stanno usando contro di lui a Washington. Lo stato sionista dispone senza dubbio di capacità del genere, e circolano voci (come questa) sul fatto che anche l'Arabia Saudita, che ha effettuato grossi investimenti in think tank e imprese di pubbliche relazioni nella capitale statunitense, sia riuscita a fare una campagna acquisti dentro la temibile macchina politica di cui lo stato sionista dispone a Capitol Hill. Sia lo stato sionista che l'Arabia Saudita vogliono che le sanzioni contro l'Iran restino in vigore. I due paesi, insieme, sono un nemico temibile.
Un tempo questi giochi di potere, che usassero le buone o le cattive, erano prerogativa dell'Occidente. Adesso non è più così. I paesi non occidentali non sono più spettatori passivi che si fanno stordire dai giochetti che gli si ordiscono contro. C'è un numero crescente di questi sotterfugi (la guerra delle informazioni, quella della telematica) che si sta ritorcendo contro l'Occidente. La "guerra su piani molteplici" che i membri della NATO temono così tanto altro non è che la guerriglia delle informazioni inventata in Occidente, che gli viene rivolta contro e che viene utilizzata contro di esso.
Insomma, il piatto-Ramadi si è rotto, e questo scompiglia tutta la giocoleria di Obama e anche la sua dottrina in politica estera, secondo cui alla forza si dovrebbe ricorrere come extrema ratio, che le azioni di forza il più delle volte non hanno portato il credito politico previsto e che una proiezione morbida del potere che contempli la guerra geofinanziaria e la proliferazione della giurisdizione statunitense rappresenta lo strumento più potente con cui l'AmeriKKKa può influenzare a proprio favore l'equilibrio mondiale dei poteri, in modo da mantenerne bene o male l'equilibrio -o meglio, in modo da potervi conservare l'attuale status quo privilegiato. Includere l'Iran in questo equilibrio, e nel controllo del sistema finanziario e commerciale mondiale cui tendere con la proiezione morbida, costituisce l'essenza stessa della dottrina Obama ed è il caso che dimostra i vantaggi di una proiezione morbida ben diretta. Il caso ha tutte le caratteristiche tipo dell'eredità che Obama spera di lasciare.
Obama vuole sopra ogni altra cosa che si arrivi ad un accordo con l'Iran. Per raggiungere questo obiettivo il Presidente, senza tanto chiasso, ha allentato la presa della lobby sionista che voleva minare la sua ambizione. Ci è riuscito spiegando al Consiglio per la Cooperazione nel Golfo che un accordo con l'Iran gioverebbe alla sua sicurezza, e poi presentando al Congresso Netanyahu come uno smaccatamente sopra il rigo, cui nessun membro del Congresso minimamente responsabile può pensare di accostare se stesso o la presidenza per quello che riguarda i negoziati con l'Iran. Isolare Netanyahu indebolisce anche l'Arabia Saudita, che aveva tratto qualche vantaggio indiretto in occasioni come quella presentatasi lo scorso marzo, quando il Primo Ministro dello stato sionista aveva aspramente rampognato l'Iran davanti a centinaia di deputati statunitensi esterrefatti. Obama gli ha reso pan per focaccia quando ha scavalcato il Primo Ministro dello stato sionista e si è rivolto direttamente al popolo, in una intervista diffusa l'ultima settimana di maggio nello stato sionista dal Channel Two, in cui chiedeva sostegno per la sua linea politica.
Il Presidente degli Stati Uniti ha cercato, con un certo successo, di confinare la possibilità dei suoi avversari di interferire sulle negoziazioni con l'Iran alla sfera della politica interna, ovvero al Congresso. Sembra comunque che Obama sia sempre ben consapevole dell'influenza e del denaro di cui dispone la lobby saudita e sionista; ha evitato di provocarla e continua anzi a mostrare un atteggiamento morbido. Nella sua intervista a Channel Two Obama spiega con calma perché la "opzione militare" nei confronti dell'Iran non è di fatto una possibilità praticabile. "Un intervento militare non risolverebbe il problema [del nucleare iraniano]. Anche se gli Stati Uniti vi prendessero parte, si riuscirebbe a rallentare per un po' il programma nucleare iraniano ma non certo ad eliminarlo". Obama ha indorato la pillola facendo crescere di un quindici per cento le risorse destinate all'assistenza militare dello stato sionista e proteggendo incessantemente lo stato sionista presso le Nazioni Unite, nello specifico quando lo stato sionista è stato accusato di aver infranto i diritti umani dei bambini a Gaza. Obama si muove come se fosse sulle uova: concede qualche cosa qui, toglie qualcosaltro là.
Si diceva del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo. Dal CCG Obama ottiene quello che vuole -ovvero l'impegno a mettere un limite all'influenza di Netanyahu sull'affare Iran, ma si mostra anche accomodante, concede qualche cosa. Asseconda il disegno del nuovo re di Riyadh, che vorrebbe spazzare via gli Houthi nello Yemen, asseconda la richiesta dei sauditi e dei sunniti in genere che vogliono che il coinvolgimento dell'Iran nella lotta allo Stato Islamico in Iraq venga drasticamente ridimensionato, nonostante tutti siano d'accordo nel considerare i contingenti iraniani come l'unica forza che gli si oppone efficacemente, e infine chiude un occhio sull'operazione congiunta tra Turchia ed Arabia Saudita per organizzare in Siria un nuovo esercito guidato da al Qaeda, il cosiddetto "Esercito della Conquista".
Ed ecco che Ramadi cade nella mani dello Stato Islamico. Nello stesso periodo, a peggiorare ulteriormente le cose, l'asse turco-saudita non si limita a fare qualche pressione in Siria, ma scatena migliaia di jihadisti raccattati fin dal Turkmenistan e dalla Cecenia per smembrare letteralmente il paese (cfr. qui). Per l'AmeriKKKa è uno shock: da un momento all'altro tutta la politica contro lo Stato Islamico diventa sospetta: perché gli USA hanno chiuso un occhio sui concentramenti di jihadisti in Siria e sullo Stato Islamico che marciava su Ramadi?
  Sembra che il Presidente fosse concentrato sulla giocoleria del fronte interno e si sia distratto dalla giocoleria mediorientale, dove i piatti hanno cominciato a sfuggirgli di mano e a fracassarsi per terra.
Detto con più chiarezza, ammassando jihadisti in Siria Arabia Saudita e Turchia hanno mandato in pezzi il fragile equilibrio di Obama e tolto di mezzo qualsiasi possibilità di una soluzione politica della crisi siriana, almeno fino a quando non si sarà conclusa questa nuova prova di forza. Il Presidente Assad, e con lui la maggioranza del popolo siriano, non accetterà mai di venire a patti con alcuno di questi nemici mortali, al Qaeda e Stato Islamico. Sauditi e turchi possono aver sperato che le loro pedine sul terreno avrebbero organizzato un blitzkrieg contro Aleppo che avrebbe finito per smembrare il paese una volta per tutte, ma nel tentativo di arrivare a questo sono riuscite soltanto aqd inasprire il conflitto perché né la Russia, né l'Iran né la Cina accetteranno mai che la Siria cada preda dei takfiri. Turchia ed Arabia inoltre rischiano forte sul piano della sicurezza interna. E' possibile che assisteremo ad interventi diretti anche più massicci da parte delle potenze alleate della Siria; in questo caso, la Siria diventerà ancora di più l'arena di un conflitto in cui sono coinvolti attori esterni.  
Sembra che il Presidente degli Stati Uniti sia stato troppo fiducioso sul tipo di gruppi armati che si scatenavano in Siria ed in Iraq, e che non abbia saputo prevedere le conseguenze che avrebbe avuto il tenere un atteggiamento conciliante nei confronti del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, che di fatto lo ha incastrato. A chi gli ha chiesto lumi sulla passività delle forze statunitensi a fronte della presa di Ramadi da parte dello Stato Islamico, ha risposto che "in privato, mi dicono i militari che non vogliono farsi vedere mentre si accaniscono contro le posizioni sunnite in quella che è una guerra settaria, perché si rischierebbe di fare cosa sgradita agli alleati nel Golfo". Insomma, compiacere il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo ha danneggiato molto il buon senso, e come ha scritto qualcuno che ha assistito ai fatti dall'interno, ha lasciato Washington con una brutta gatta da pelare.
"...Il riferimento per capire quale sia la politica statunitense oggi è dato da quanto succede a Ramadi. Se, come sembra possibile, le milizie irachene [ovvero proprio le formazioni che gli Stati Uniti hanno cercato di escludere dalla partita] riescono a riconquistare la città, gli statunitensi tireranno un sospiro di sollievo e non penseranno più che sia tanto necessario rivedere un approccio fatto di raid aerei e di campagne di addestramento organizzate con tutta calma. Se invece lo Stato Islamico riesce a tenere la città cresceranno le pressioni volte a far sì che gli USA schierino altre truppe assieme ai loro alleati iracheni. Al Pentagono si sta sempre più facendo strada l'idea che vada fatto, anche se alla Casa Bianca ancora non ne vogliono sapere. Un altro dilemma, presente ed irrisolto per gli USA, è fino a che punto deve arrivare il coordinamento con l'Iran per le operazioni in Iraq. Nel corso degli ultimi incontri con gli iraniani nell'àmbito dei negoziati dei "cinque più uno" sul nucleare, nessuno ha sollevato la questione. Da scambi a carattere privato avuti con funzionari superiori siamo venuti a sapere che essi considerano un accordo con l'Iran come la premessa perché si arrivi ad una soluzione ai conflitti in corso nell'area, in particolare in Siria e nello Yemen. Si mette molto l'accento sul fatto che non si sta cambiando orientamento diventando favorevoli all'Iran, ma si pensa comunque che un accordo sul nucleare potrebbe portare frutti che vanno ben al di là del contesto immediato. Queste tesi in cui si concatenano cause ed effetti, comunque, continua ad essere vista con molto scetticismo a Capitol Hill".
Non è che ci sia molto altro che Obama possa fare oltre a cercare di mostrarsi accomodante verso Mosca e verso Tehran, nella speranza di ritrovare un equilibrio che consenta di rintuzzare i guadagni territoriali dello Stato Islamico in Iraq e di contrastare al Qaeda (Jabat al Nusra) e lo stesso Stato Islamico all'offensiva in Siria.
Sermbra che il tentativo sia già in corso. Kerry si è recato a Sochi per parlare con il Presidente Putin non soltanto dell'Ucraina, ma anche di altre cose. A Washington è sempre più apprezzato, almeno presso le conventicole realiste se non presso i potenti settori neocon, il fatto che per quello che riguarda l'Ucraina è Mosca ad avere in mano la maggior parte delle carte. L'atteggiamento dei paesi anglosassoni nei confronti di Putin non è cambiato, ma al tempo stesso l'Ucraina è diventata un po' l'elefante in mezzo alla strada, che impedisce il raggiungimento di altri obiettivi in altri teatri in cui è per forza richiesta la collaborazione o almeno l'acquiescenza dei russi. 
Anche a Sochi gli Stati Uniti si sono mostrati accomodanti per quel che riguarda i principi del secondo incontro di Minsk, come il percorso da seguire per arrivare ad un assetto federale per l'Ucraina: una soluzione che preveda una federazione fuori dalla NATO è sempre stata la soluzione di preferenza per Vladimir Putin. I giornalisti a Sochi hanno chiesto a Kerry cosa ne pensasse delle ultime dichiarazioni del Presidente Poroshenko sulla necessità di riprendere i combattimenti attorno alla città di Donetsk che è in mano ai ribelli filorussi. Kerry ha risposto: "Non ho letto il suo discorso. Non sono entrato nel merito. Ne ho solo sentito parlare a tratti nella giornata di oggi. Solo che se il Presidente Poroshenko sta dicendo che ora come ora dobbiamo impegnarci in un atto di forza, dobbiamo senz'altro dirgli di pensarci due volte prima di imbarcarsi in un'impresa del genere, perché gli accordi di Minsk ne risentirebbero gravemente. E noi saremmo molto preoccupati per le conseguenze che oggi come oggi un'iniziativa simile potrebbe avere". Parole del genere vogliono dire che gli Stati Uniti hanno cambiato registro.
Il problema è se Obama o Kerry riusciranno a convincere sia l'Iran che Putin -entrambi molto scettici- che l'AmeriKKKa contro lo Stato Islamico intende fare sul serio. Sia in Iran che in Russia si pensa che l'AmeriKKKa veda ancora i takfiri un po' come qualcosa di suo. Se il colpo riuscisse gli USA si libererebbero di un grosso peso, ma soprattutto è necessario che l'AmeriKKKa arrivi ad un accordo sul nucleare con l'Iran. Senza accordo, il retaggio di Obama sembrerebbe davvero esile. E non va dato per scontato che con l'Iran si arriverà ad una soluzione su tutti i piani.

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