mercoledì 21 maggio 2014

Barack Obama e Vladimir Putin sulla scacchiera ucraina



Traduzione da Conflicts Forum.

In un suo recente scritto il prof. Stephen Walt notava dispiaciuto che forse una delle peggiori previsioni mai fatte da Bill Clinton è in una sua osservazione del 1992, in cui affermava che "in un mondo in cui prevale la libertà, e non la tirannia, il calcolo cinico basato su politiche di pura potenza non funziona; si adatta male ai tempi nuovi".
Walt dice che stabilire che non è più tempo di fare politiche di potenza e che si sta avviando l'istituzionalizzazione di un generoso ordine mondiale globalizzato e guidato dal libero mercato in cui sarà sempre maggiore la partecipazione dal basso negli USA è stato per molto tempo una specie di dogma. Per trovarne le origini bisogna risalire agli anni precedenti la seconda guerra mondiale, all'epoca in cui un gruppetto di esperti del Conuncil for Foreign Relations iniziò a sostenere che questo assunto avrebbe costituito il leitmotiv che avrebbe fatto la differenza tra l'ascesa dell'AmeriKKKa al ruolo di potenza egemone (qualcosa di fermamente voluto anche all'epoca) rispetto al concetto abituale di imperialismo ottocentesco, incarnato dalla metafora della corazzata. L'idea si rifaceva al retaggio dei Padri Pellegrini (che erano protestanti), l'idea di un'AmeriKKKa come "Nuova Gerusalemme" che avrebbe redento il mondo. Come scrive Walt, più pragmaticamente si sosteneva che "il dominio degli Stati Uniti aveva reso impossibili per definizione rivalità geopolitiche di una qualche rilevanza: come potevamo mettere in atto una politica di potenza quando di grandi potenze ne era rimasta solo una?"
Questa concezione poneva gli Stati Uniti al centro di un ordine mondiale scontatamente quieto e metteva in un'ottica alquanto positiva il ruolo mondiale dell'AmeriKKKa. Permetteva di fare propria una visione ottimistica delle questioni internazionali, in cui una cooperazione da cui tutti traevano beneficio e che tutti conduceva verso "la fine della Storia" non rappresentava soltanto un obbligo per tutti gli styati sovrani, ma imponeva anche a chi vi aderiva di far proprio un concetto del "Bene" limitato e polarizzato culturalmente, che aveva al centro il concetto di "Assoluto" inteso come "Verità". In fin dei conti, proprio quest'ultimo aspetto ha portato allo sfascio tutta la concezione, perché ha messo in mano ai sostenitori liberali dell'interventismo dei pretesti per colpire i meno potenti "stati canaglia" ed i loro capi politici, che ai loro occhi erano diventati "nemici del Bene". Secondo Walt, "anche l'ascesa della Repubblica Popolare Cinese non avrebbe costituito un problema; in questo nuovo mondo globalizzato, un'AmeriKKKa potente ma benevola ne avrebbe sostenuto la crescita, e poco per volta avrebbe introdotto Pechino ad un ordine mondiale regolato da istituzioni progettate e il più delle volte nate in AmeriKKKa" (il corsivo è di Conflicts Forum).
Dopo i recenti avvenimenti in Ucraina questa concezione, profondamente radicata in AmeriKKKa, si è senza dubbio andata a schiantare contro un ostacolo inamovibile: la constatazione del fatto puro e semplice che delle politiche di potenza non si è mai fatto davvero a meno e che esse sono sempre presenti, appena sotto la superficie. Il risultato della guerra in Iraq, la determinazione della Repubblica Islamica dell'Iran ad opporre resistenza sulla questione del nucleare, il fallimento in Afghanistan, la sfida della Cina hanno rappresentato tutti segnali del fatto che la situazione geopolitica era cambiata, perché gli stati sovrani hanno rivolto le loro politiche di potenza contro gli USA. Proprio l'Ucraina infine ha finito per spiccare come il simbolo personificato di uno scontro fra concezioni diverse.
Una delle conseguenze più ovvie è stato il fatto che due narrative diverse su ciò che l'Ucraina rappresenta ( quella degli USA e quella della Russia) non concordano in nessun punto. Nel primo caso, abbiamo una concezione in cui gli eventi storici convergono progressivamente su determinati valori; l'altra invece è centrata sulla riconquista della sovranità e sul diretto corollario di questa, ovvero l'insistenza sul diritto che ogni nazione ha di vivere secondo la propria strada, e in fin dei conti di difendere il proprio "modo di essere" ad oltranza. Non c'è dubbio che ci troviamo oggi in un periodo in cui sempre più persone vogliono vivere, ed essere governate, all'interno di istituzioni che riflettono il loro modo di intendere la vita.
Cosa significa questo per la crisi in Ucraina, e quale politica estera possiamo attenderci che gli Stati Uniti adotteranno in Medio Oriente?
Il punto maggiormente dibattuto, e la causa verosimile della deriva e del cattivo funzionamento della politica estera degli Stati Uniti, è dato dal fatto che il Presidente Obama pare capire anche troppo bene il significato delle crude parole che va diffondendo: vede con i suoi occhi, e capisce perfettamente, che l'idea di una "AmeriKKKa come benevola potenza egemone del mondo" sta incontrando reazioni ostili e limiti sempre più stringenti. Obama è consapevole di questo, ma resta intrappolato alla concezione di fondo, come risulta evidente dal discorso che ha pronunciato a Bruxelles quando è esplosa la crisi in Ucraina, in cui si è rifatto all'idea di un mondo in cammino verso un ordine mondiale positivo.
Obama stesso però manda anche qualche segnale che fa intendere come egli stesso non ci creda veramente perché in altri contesti ha contraddetto quanto sostenuto a Bruxelles; in alcune interviste ha detto chiaramente che, come vertice politico dell'AmeriKKKa, egli non dispone di alcun joystick che gli permetta di controllare gli eventi. Detto in altri termini, questo famoso "ordine positivo" non può essere instaurato a comando in nessun modo e la miglior cosa che si possa fare per quanto riguarda il Medio Oriente è lasciarsi portare dalla corrente, sperando che essa imbocchi prima o poi una direzione più favorevole. Il suo consigliere per la comunicazione strategica nel campo della sicurezza nazionale ha detto che il vero obiettivo di Obama in politica estera è quello di riuscire a spogliare la politica estera statunitense dalle sue "narrative sclerotizzate".
Il Presidente Obama è anche a conoscenza del fatto, suggerito da tutti i sondaggi, che il pubblico ameriKKKano è istintivamente consapevole di questo, e che è d'accordo con lui nell'opporsi a politiche interventiste.Invece gli interventisti repubblicani e dell'ala liberale del partito democratico, quelli dei think tank e i lobbysti di tutti i generi, da quelli dell'industria bellica a quelli di Wall Street, per tacere dei neo-con, questa consapevolezza non ce l'hanno, e tanto basti. Stanno mettendo l'assedio al Presidente da ogni lato, perché si dimostri più intransigente e più aggressivo, specialmente verso la Russia e verso il Presidente Putin che è il "nemico del bene" per antonomasia.
Pare che il Presidente Obama abbia reagito a queste forti pressioni e agli attacchi sui fallimenti della sua politica estera (Siria, palestinesi e stato sionista, la sua "mal diretta" iniziativa verso l'Iran) cedendo ai falchi un po' di terreno tattico, mentre al tempo stesso stabiliva come propria linea rossa (senza mai dirlo apertamente) l'evitare l'intervento militare diretto in ognuna di queste circostanze.
In questo modo, ha potuto rispondere ai detrattori: "Bene, cosa volete che faccia? Volete che mi mostri più intransigente e più aggressivo?  Pare che dall'Iraq non abbiate imparato nulla; visto che anche voi come me siete contrari all'intervento diretto in queste aree di crisi, cosa pensate che debba fare, che già non stia facendo?".
In poche parole, Obama sta dicendo ai suoi detrattori che il problema è proprio il fatto che loro siano rimasti attaccati alla propensione per politiche di potrenza da XIX secolo, come se esse potessero rappresentare una soluzione per le complesse questioni di oggi. In Medio Oriente, assistiamo oggi alle conseguenze della tattica presidenziale basata sul cedere terreno, messa in atto per tutelare il fine strategico ultimo, che è quello di non dare il via a qualche nuova guerra: si ha una escalation su tutti i fronti, dal momento che Obama lascia perdere le questioni che per i falchi degli ambienti governativi hanno la massima importanza in modo da poter sopravvivere alle pressioni che vengono di momento in momento esercitate su di lui.
Obama sa anche che il suo defilarsi tatticamente in modo da tutelare l'obiettivo strategico del non intraprendere gli interventi militari diretti invocati dai suoi oppositori sta comunque lasciando campo libero agli attori regionali (lo stato sionista, l'Arabia Saudita...) e che determinati elementi interni al sistema ameriKKKano stanno cercando di ampliare questi "spazi limitati" estendendone di volta in volta i limiti, il che significa ad esempio armi per gli insorti siriani e loro maggior riconoscimento a Washington.
Quest'anno ci sono le elezioni di metà mandato, e per i democratici il senato è a rischio. I repubblicani stanno bersagliando il Presidente per quella che considerano una politica estera remissiva, e con loro ci sono la signora Clinton come probabile candidato democratico per il 2016, e anche paesi alleati degli Stati Uniti come lo stato sionista e l'Arabia Saudita.
Sembrerebbe che tutti gli iniziali obiettivi politici di Obama (uno stato palestinese, ripartire da zero con i rapporti con la Russia, l'accordo per il nucleare iraniano) adesso siano per lui politicamente irraggiungibili e che la conclusione più probabile sia che il Presidente si trovi costretto a cedere ancora più terreno a chi lo attacca; Obama deve stare sulla difensiva mentre i falchi continuano a pretendere ancora più sostegno per gli insorti siriani e ad insistere sul fatto che per l'Iran deve essere fisicamente impossibile arrivare a disporre del materiale necessario ad un ordigno nucleare.  In breve, per i prossimi mesi il violento conflitto siriano continuerà ad essere alimentato anziché no. E il fatto che negli Stati Uniti si insista in misura sempre maggiore sul fatto che l'Iran non deve essere fisicamente in grado di arrivare a tanto si dimostrerà probabilmente incompatibile con il desiderio iraniano di alimentare le industrie nazionali con il nucleare.
Mercoledi Obama ha detto ai suoi sostenitori nel corso di un pranzo per la raccolta di fondi a favore del partito democraticoche l'inquietudine e la frustrazione che serpeggiano per il paese stanno alimentando atteggiamenti cinici nei confronti del governo; la cosa potrebbe avere ripercussioni negative sul risultato elettorale del partito democratico alle elezioni del Congresso previste per novembre. Secondo Politico, "Obama ha detto ai suoi sostenitori ricchi che è preoccupato per le elezioni, e che gli serve che il senato resti a maggioranza democratica". Non c'è dubbio che mlti ameriKKKani stiano provando la sensazione di trovarsi alla deriva, e che la posizione dell'AmeriKKKa nel mondo sia divenuta evanescente. Obama mette in guardia sul fatto che questo senso di frustrazione, montato dai mass media e dai suoi oppositori (compresi quelli che si trovano all'interno della sua stessa compagine governativa) stanno diventando una minaccia per le elezioni di metà mandato.
Ed è questo il punto in cui la questione dell'Ucraina si rivela  importante. James Traub in un articolo intitolato Il nemico che stavamo aspettando scrive: "...Insomma, Putin ha riagguantato indietro il governo [rispetto alla prassi di impegno seguita da Obama] ricacciandolo nel mondo dove le aggressioni esistono... Putin, questo è vero, ha stabilito lui i termini della contesa... Nondimeno, io sospetto che né l'autocompiacimento di Putin né l'arruffar di penne del senatore John McCain durerranno a lungo. Putin è proprio l'impiccio che Obama stava aspettando".
Il fatto è che chi detta la linea politica a Mosca comprende bene il modo di pensare ameriKKKano, nonostante le rispettive visioni non abbiano alcun punto in comune, e probabilmente lo comprende assai meglio di quanto non si verifichi a ruoli rovesciati. Il Presidente Putin non sta facendo la voce grossa a tu per tu con gli USA secondo schemi ormai datati. Putin si sta muovendo in uno scenario multidimensionale, su una scacchiera che è quella del mondo multipolare. Putin ha in mente la Cina, ha in mente i BRICS, ha in mente i paesi non allineati, il Medio Oriente e l'Eurasia.
Le priorità di Obama forse sono cambiate in considerazione dei suoi timori sul senso di frustrazione degli ameriKKKani e per l'impatto che potrebbe avere per i democratici alle elezioni di metà mandato.
Dapprincipio l'aiuto di Putin, sotto traccia e non riconosciuto, era importante perché le politiche mediorientali di Obama potessero funzionare: ci sono stati l'accordo per le armi chimiche siriane, i negoziati con l'Iran, eccetera. Ora però sembra che tutto sia passato in secondo piano rispetto alle preoccupazioni di Obama per gli affari interni e per le elezioni statunitensi ormai prossime, dato che secondo il vecchio adagio la politica estera degli Stati Uniti è per loro una questione di politica interna. Putin oggi potrebbe davvero diventare "l'impiccio che Obama stava aspettando", inteso come occasione per salvare i democratici da un'ignominiosa sconfitta alle elezioni di metà mandato e per dare in pasto agli elettori ameriKKKani una di quelle faccende all'antica fatte di bianco e di nero in cui c'è di mezzo un nemico storico. Almeno momentaneamente, puntellerebbe il loro orgoglio nazionale.
La nuova iniziativa del Presidente Putin sui colloqui per l'Ucraina, volta a posticipare i referendum, viene da uno che ha capito alla perfezione in quale nassa  Obama vorrebbe rinchiuderlo (Il nemico che stavamo aspettando, secondo Traub) e che ne sta cercando l'uscita? Sembra probabile che la crisi Ucraina sarà ancora lunga, almeno fino a quando le elezioni di metà mandato -come dicono gli ameriKKKani tra loro- non avranno fatto luce su come si schiera l'AmeriKKKa in questi tempi nuovi. I dividendi politici della questione Ucraina, e non è affatto detto che ve ne saranno, andranno a vantaggio di chi si rivelerà lo scacchista migliore tra Obama e Putin. In Medio Oriente la partita sarà seguita con attenzione, ma quanto a scommettere si scommetterà probabilmente su Putin.

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