domenica 1 dicembre 2013

I negoziati con la Repubblica Islamica dell'Iran, mercato dell'energia e geopolitica mediorientale secondo Conflicts Forum


Il Presidente Obama ha inferto un poderoso scossone al vecchio ordine mediorientale con le sue iniziative sulla Siria e sull'Iran, e sembra che la cosa stia traducendosi sul terreno in una tendenza nuova per la situazione geopolitica. Siamo appena all'inizio ed è possibile che le novità non siano altro che pagliuzze nel vento di quello che è stato chiamato "il nuovo ordine a-polare o non-polare del mondo", un ordine che sembra comunque oggi aver perso le strutture essenziali che sostenevano la vecchia polarizzazione dei poteri. Sembra che questo "nuovo ordine" stia prendendo piuttosto una forma anti-polare con il rifiuto della polarizzazione intesa come caratteristica fondante, ed il ritorno ai vecchi concetti di sovranità e di autonomia; pare che stia diventando di tutto, meno che un "ordine" vero e proprio. L'effetto di questa destrutturazione è evidente, forse, soprattutto nell'incoerenza strategica del periodo che stiamo attraversando, di cui sono esempi l'inveire di Laurent Fabius che arriva a Ginevra per rovesciare il tavolo del "cinque più uno" [*] mettendo così senza mezze misure alla luce la mancanza di unità del campo occidentale, ed  lo scorrazzare rabbioso e distruttivo del Principe Bandar in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti si stanno disimpegnando militarmente dal Medio Oriente, per impegnarsi invece in Asia. L'AmeriKKKa vorrebbe anche tenere il piede in due staffe, ma sta sostenendo uno sforzo militare ed economico troppo impegnativo ed è costretta a fissare delle priorità. Obama ha detto senza mezzi termini all'assemblea generale dell'ONU che gli Stati Uniti ridurranno drasticamente il numero di priorità cui destineranno il loro impegno politico e militare, limitandole a quattro soltanto. La loro politica è quella di non avere alcuna politica al di là di questo. E poi gli statunitensi in genere non sono più disposti ad accettare che gli Stati Uniti vengano impelagati in un'altra guerra in Medio Oriente per via dei sionisti o dei sauditi e dei loro obiettivi difformi. E' anche abbastanza chiaro che gli alleati mediorientali dell'AmeriKKKa non sono stati capaci di fare gli interessi degli Stati Uniti: non possono né arginare l'Iran, né rendere stabile la Siria o il Medio Oriente in generale; sembra anzi si stiano dando da fare per peggiorare le cose. Soprattutto, non possono davvero affrontare le cellule jihadiste che stanno sciamando ovunque. E' ora che si affermi un nuovo equilibrio dei poteri, e da qui nasce il tentativo di rivedere le posizioni nei confronti dell'Iran. E anche nei confronti della Siria, la sola che abbia la possibilità di infliggere agli jihadisti una qualche sconfitta significativa.

Così, all'improvviso ci sono altri due paesi che si sentono mancare la terra sotto i piedi. Per cinquant'anni l'Arabia Saudita è stata in grado di retribuire qualcun altro perché ideasse e poi mettesse in atto una politica estera al posto suo. I soldi erano tutto. I sauditi non hanno costruito istituzioni nazionali e neppure hanno sviluppato in modo significativo il proprio tessuto sociale; hanno pensato che la loro preminenza nel mondo musulmano fosse garantita, senza far nulla per realizzare delle basi solide a questo scopo. Hanno esternalizzato ogni cosa, delegato tutto ad altri fornitori, soprattutto ai servizi segreti statunitensi ed europei. Il regno ha pochi amici sinceri in Medio Oriente, anche all'interno del Consiglio degli Stati del Golfo. La prospettiva di uno stato sciita rivoluzionario che imponesse il proprio predominio metterebbe quasi certamente la parola fine al sogno di Re Faisal di imporre lo wahabismo come unica voce legittima dell'Islam, e spingerebbe l'Islam verso una direzione molto diversa e verso un orientamento nemico del salafismo. Per l'Arabia Saudita prendere in considerazione la prospettiva di un'alleanza con lo stato sionista è sintomo di disperazione, non del fatto che possiede una propria strategia; si ricordino le proteste e gli episodi violenti suscitati dal fatto di aver accolto truppe statunitensi durante l'ultima guerra del Golfo. Sul fronte interno dell'Arabia Saudita la tensione sta salendo, e il paese non può andare avanti in questo modo; si trova adesso in una condizione di insabilità che deve finire alla svelta, in un modo o nell'altro.
Anche lo stato sionista si trova in una situazione più o meno simile. I commentatori sionisti hanno sottolineato ironicamente come lo stato sionista sia sempre stato contento di affidare agli Stati Uniti la tutela dei propri interessi regionali: gli Stati Uniti facevano da "avvocato" dello stato sionista in tutti i negoziati. Adesso, con il disimpegno statunitense, i sionisti sono rimasti senza un proprio posto in tutte le sedi di negoziato in cui sono in gioco i loro interessi. Partecipare al negoziato sulla Palestina per lo stato sionista è più una necessità cui piegarsi di malavoglia che non un impegno cui dedicarsi con sincero entusiasmo. Inoltre l'orientamento del partito laburista, che nel 1992-1993 abbandonò la politica inaugurata da Ben Gurion che prevedeva la ricerca di alleati tra le minoranze regionali e nelle zone periferiche in favore della ricerca di alleati arabi, sembra essere giunto a fondo corsa. In genere, gli abitanti dello stato sionista sono dell'idea che questo abbia portato poco frutto e le insurrezioni arabe sono servite soltanto a consolidare questa opinione. Anche lo stato sionista è alla ricerca di altri partner e di altri alleati, al di là di quello saudita e delle sue incerte prospettive. Il recente tentativo di Netanyahu di mettere Putin contro Obama non è stato un successo. Qualcuno, nello stato sionista, pensa ai giacimenti di petrolio e di gas come a strumenti in grado di consolidare una nuova coalizione nel Mediterraneo orientale: lo stato sionista considera la Grecia e Cipro come collaboratori scontati nella realizzazione di un oleodotto diretto in Europa, e sta guardando allo stato che occupa la penisola italiana come ad un potenziale passaggio verso l'Europa. L'idea è quella di fornire energia all'Europa -lo stato sionista è già unito alla rete elettrica europea- pensando di poter finalmente acquistare in legittimità, specialmente se la Francia sarà tra gli acquirenti. La cosa fa capire anche che lo stato sionista sembra si sia accorto che la via verso la legittimazione sul piano internazionale passa dall'instaurazione di più stretti rapporti con il continente europeo che non per la supremazia in Medio Oriente.
L'idea ha indubbiamente del fascino, ma lo stato sionista è stato forse troppo ottimista; la politica dei giacimenti di gas e petrolio nel Mediterraneo orientale è potenzialmente esplosiva, e un'alleanza formata attorno ad essi si troverà a dover affrontare aspre politiche energetiche in merito alla demarcazione della zona economica europea nel Mediterraneo e alla costruzione di qualunque conduttura diretta in Europa. Elefanti in una cristalleria, praticamente; in fin dei conti i sionisti possono arrivare alla conclusione che hanno più bisogno di aprire un proprio canale di comunicazione con l'Iran anziché dipendere per intero dagli Stati Uniti; esistono osservatori seri che pensano che lo stato sionista abbia davvero tirato troppo la corda con l'Iran, e che questa essenziale magagna sia oggi sotto gli occhi di tutti e sia diventata causa dell'isolamento in cui è finito il paese. Tuttavia si dovrà probabilmente attendere l'insediamento di un nuovo Primo Ministro perché si giunga ad un mutamento di rotta.

Sembra che la Turchia, che un tempo era vista dai sionisti come un potenziale partner nel settore energetico, adesso venga considerata politicamente troppo inaffidabile per far parte di questa "coalizione del Mediterraneo orientale", e questo non fa che far crescere i dubbi sul progetto di oleodotti e gasdotti che la Turchia è intenzionata a sviluppare in proprio. La Turchia inoltre ha compiuto una revisione delle proprie posizioni alla luce del cambio di politica messo in atto dagli Stati Uniti nei confronti della Siria, e adesso considera più importante combattere gli jihadisti piuttosto che rovesciare il governo siriano. Ed un'Ankara ammaccata ha cercato di ricostruire i ponti con al Maliki a Baghdad, e di ravvivare i rapporti con l'Iran, mettendo in secondo piano le divergenze sulla Siria.

La Russia se ne è rimasta per lo più tranquillamente in disparte dopo le recenti vicende del negoziato dei "cinque più uno" e dell'accordo sulle armi chimiche con la Siria. Putin pensa da tempo che la situazione politica internazionale sia entrata in una fase incoerente, in cui tutto è instabile e transitorio; se per quanto è dato vedere l'unità di intenti occidentale sta franando (pensiamo ancora a Fabius) la Russia può ben rimanersene in disparte (questo potrebbe concludere Putin) a guardare da bordo campo il mondo unipolare che va in malora. Certamente, i russi hanno un certo numero di interessi fondamentali, e sembra che il modo in cui sono concepiti stia cambiando sotto la spinta degli eventi in Medio Oriente.

Il principale interesse dei russi è quello di impedire ogni scivolata dell'Unione Europea verso la sua connaturata e in un certo senso storica ostilità nei confronti della Russia. E' quello che è successo con l'annessione all'Unione Europea, da parte dell'Europa occidentale, dei paesi dell'est, poco teneri nei confronti di Mosca. La Russia adesso sta facendo pressioni sulla Germania e sta cercando di acquisire voce in capitolo diventando il monopolista per la fornitura di energia all'Europa. I russi non vogliono avere concorrenti a metter loro i bastoni tra le ruote, che siano lo stato sionista, il Qatar, o un qualche consorzio del Mediterraneo orientale guidato dai sionisti.

E qui è entrata in gioco la crisi siriana. I russi e gli iraniani si sono scoperti a muoversi in sintonia negli ultimi due anni, anche se tra loro c'è ancora qualche cautela. In realtà i rapporti tra i due paesi si sono profondamente trasformati, rivoluzionati addirittura. L'Iran non intende ostacolare le intenzioni dei russi sulla fornitura di gas all'Europa, ma ricavare un ruolo complementare per l'export di energia iraniano ed iracheno. Con la Russia, l'Iran condivide anche l'interesse a sostenere -e magari anche a stabilire- il prezzo del gas. Iran ed Iraq guarderanno ad oriente e ai loro vicini immediati, magari col sostegno delle compagnie petrolifere internazionali dell'Occidente, mentre i russi guardano essenzialmente ad ovest, verso l'Unione Europea.

I recenti scenari prospettati dagli Stati Uniti indicano che la Cina può aver superato l'AmeriKKKa, diventando il maggior consumatore mondiale di petrolio anche se le statistiche dettagliate a riguardo vengono messe in dubbio dai cinesi. La questione, comunque, è che ci si attende una crescita esponenziale del fabbisogno cinese per gli anni a venire e che la maggior parte di esso, circa il 60%, viene soddisfatto da fornitori mediorientali; l'Iraq è oggi il secondo fornitore della Cina per ordine di importanza, grazie ai grossi investimenti che i cinesi hanno fatto nel paese. Le sanzioni contro l'Iran sono state determinanti perché i cinesi guardassero all'Iraq, e le esportazioni iraniane verso la Cina sono cadute dal terzo al sesto posto come conseguenza del fatto che i cinesi si sono rivolti al petrolio iracheno.

Cosa ha a che fare tutto questo con i negoziati del "cinque più uno"? Occorre spiegare per quale motivo le aperture iraniane non sono dirette in modo esclusivo -o anche principale- nei confronti degli Stati Uniti. Fin da principio la politica itraniana è stata quella di trasformare i rapporti con il resto del mondo nella loro interezza: aprirsi al mondo e intessere relazioni amichevoli con esso (paesi del Golfo compresi) e aver dimostrato serietà e trasparenza nel cercare di risolvere i problemi con l'AmeriKKKa. A Tehran nessuno si è mai aspettato di risolvere ogni questione in sospeso con gli Stati Uniti, a causa degli ostacoli legali che impediscono di togliere le sanzioni; però c'è stata la sensazione che si potesse arrivare ad un allentamento della tensione con l'AmeriKKKa e alla realizzazione di qualche nicchia in cui cooperare.

E' possibile che i colloqui coi paesi occidentali falliscano. Ma se si arrivasse a questo, magari come risultato del boicottaggio praticato da Francia, Arabia Saudita e stato sionista, la cosa non rappresenterebbe per forza di cose un fallimento di per sé della linea politica seguita. E' possibile che le mosse compiute indipendentemente dal resto del mondo dagli Stati Uniti possano continuare a far decrescere la tensione e a cercare terreni di cooperazione con l'Iran in Afghanistan, in Siria e altrove. Se addirittura gli elementi occidentali del "cinque più uno" non si trovassero d'accordo tra loro e non riuscissero a stringere accordi con l'Iran, potremmo addirittura veder cadere tutto il pacchetto delle sanzioni perché molte -anche se non tutte- delle misure sanzionatorie in vigore hanno poco o punto fondamento legale e il loro implemento poggia più sulle minacce del Tesoro statunitense che sulla legalità. Detto altrimenti, le sanzioni decise dagli Stati Uniti potrebbro cominciare a venir meno, se gli Stati Uniti perdono il loro interesse per questo braccio di ferro. E' anche possibile che sia qualche altro paese a prendere in mano la situazione, ad arrivare ad un accordo con l'Iran lasciando isolati gli Stati Uniti. Il rifiuto dell'autorità polarizzatrice insito nell'atteggiamento "anti-polare" è un elemento importante nella questione delle sanzioni.

E se si arrivasse ad un accordo? Uno dei risvolti inattesi della crisi siriana è che la Russia ha scoperto che le sue relazioni con la Siria e con l'Iran ne sono state letteralmente rafforzate. La crisi ha aiutato la diplomazia russa a rivelarsi efficace, ha dato alla Russia un potere di influenza ed una statura internazionale e le ha anche fornito un punto d'appoggio in Medio Oriente. La crisi ha anche permesso di gettare le basi per una cooperazione strategica nel settore dell'energia tra Russia, Iran e Iraq. L'Iran intende fornire gas alla Siria e al Libano attraverso un gasdotto ad alta capacità, la Siria e il Libano contano tutti e due su possibili giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Alla fine anche questi potrebbero contribuire al South Stream che i russi hanno in programma.    

Qualunque progresso compiano i colloqui del "cinque più uno" costituirebbe dunque una brutta novità per i paesi del Golfo, sia dal punto di vista politico che da quello economico. Un simile progresso sbilancerebbe l'equilibrio del mercato energetico a discapito di certi paesi del Golfo che sono cresciuti attorno alla massiccia produzione e agli alti prezzi. Al crescere della produzione irachena -e adesso anche la produzione iraniana è in crescita- cresceranno anche le pressioni affinché i sauditi e gli altri paesi riducano la loro produzione per mantenere stabili i prezzi. Gli introiti di certi paesi ne risentiranno.

In tutta la faccenda, è l'Egitto a trovarsi nella posizione meno comoda. Dove cercare nuovi alleati? Secondo certe indicazioni, l'Egitto sente di avere oggi più in comune con la Siria che con l'Arabia Saudita, ma nessun egiziano intende dirlo chiaro e forte.


[*] Il gruppo di paesi che conduce le trattative sul nucleare con la Repubblica Islamica dell'Iran, N.d.T.

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