mercoledì 12 giugno 2013

Assad sta vincendo la guerra. Qusayr, le proteste in Turchia e le elezioni presidenziali in Iran secondo Conflicts Forum


La caduta di Qusayr segna un punto di svolta dal punto di vista strategico, sia per la Siria che per l'equilibrio geostrategico della regione. A città appena caduta, acquistano evidenza gli avvenimenti immediatamente precedenti; dopo che il blocco occidentale e il Consiglio di Cooperazione nel Golfo avevano alzato la posta rispetto alla Russia, in previsione delle eventuali negoziazioni chiamate Ginevra II, la Federazione Russa e i suoi alleati avevano messo sul piatto una posta doppia, mettendo in atto una serie concertata di rilanci (cfr. il precedente commento settimanale). Quello che adesso è ancora più chiaro è che in previsione della vittoria a Qusayr ed avvertendo l'importanza di questa svolta strategica sia nell'immediato che in una prospettiva più ampia, la coalizione che riunisce russi, siriani, iraniani e Hezbollah stava inviando un inequivocabile messaggio di deterrenza all'Occidente ed in particolare allo stato sionista; qualunque tentativo di intervenire direttamente per cambiare le carte in tavola in Siria sarebbe andato incontro ad una risposta concordata ed efficace e ad un ulteriore escalation nel conflitto.

L'importanza militare di Qusayr adesso è molto chiara (si veda qui). Su un certo piano la sua conquista taglia le vie di rifornimento che vanno verso il Libano con l'eccezione dello snodo di Arsal ed irrompe in quell'antico e profondo tracciato sunnita che unisce in modo organico la città di Tripoli nel Libano settentrionale con Homs, Hama, le cittadine e i paesi che le circondano. La Siria mette così in sicurezza la regione costiera tra Tartus e Lattakia, che rappresentano le principali vie di transito per i materiali militari, i combustibili e le materie prime che vengono spedite a Damasco via mare. Su un altro piano invece, dopo i successi militari dell'esercito regolare ad est e a sud, tutto è pronto (con Damasco adesso in buone condizioni di sicurezza) per una veloce e massiccia realizzazione di nuove strae, che il governo siriano aveva già iniziato a costruire, dirette verso Aleppo e verso il nord della Siria. Queste arterie "sicure", che aggirano città e villaggi, permettono all'esercito siriano di schierarsi in modo veloce e massiccio fino alla frontiera settentrionale con la Turchia. La cosa forse ricorda la celere avanzata di Hezbollah nel 2000 che giunse a ridosso della frontiera con lo stato sionista. Si trattò di una mossa di sorpresa che semplicemente ignorò e aggirò vari concentramenti di soldati sionisti che rimasero ingannati e circondati. I sionisti non subirono attacchi; alla fine vennero instradati in corridoi sicuri, lungo i quali poterono uscire dal sud del Libano senza problemi.
Lo stato sionista è stato sicuramente più veloce di alcuni leader europei nel comprendere l'importanza di Qusayr. Il successo di Hezbollah (ottenuto tramite soldati giovani, che si erano addestrati regolarmente mese dopo mese per più di un anno) ha provato la sua capacità di portare a termine operazioni offensive in ambienti urbani difficili. Lo stato sionista è anche al corrente del fatto che a Qusayr sono state utilizzate nuove tattiche operative per la guerra in ambiente urbano. Questa prospettiva sta causando profonda inquietudine nello stato sionista, e non soltanto in considerazione della stretta vicinanza di centri urbani sionisti alla frontiera libanese; Alex Fishman, il decano dei corrispondenti di guerra sionisti, ha detto chiaramente e facendo riferimento ad un quadro più ampio che "Se al-Qusayr diventa la prima tessera del domino a cadere nel contesto della ribellione contro Bashar Assad, questo sarà presagio di una catastrofe strategica in tutta la regione; e dobbiamo ringraziarne gli Stati Uniti d'America, i difensori del mondo libero". Fishman si riferisce con chiarezza alle conseguenze di più ampia portata che questo avrebbe per l'equilibrio strategico che esiste fra alcuni stati sunniti che gli Stati Uniti stanno cercando di far diventare alleati dei sionisti e degli USA stessi (in complesso chiamati i "quattro più uno", dove l'uno fa riferimento alla Turchia che non è un paese arabo) e la "coalizione della resistenza" che unisce Siria, Iran, Iraq e Hezbollah.
Il fatto che certi politici europei non siano riusciti ad interiorizzare le possibili conseguenze di quanto succedeva sul terreno, che sta influendo sulla situazione in Siria assai più di quanto possano influirvi le piroette in cui si esibiscono gli "Amici della Siria", è stato notato da Claire Spencer della londinese Clatham House. "Quello che non si capisce è come mai gli alleati occidentali abbiano impiegato tanto tempo a capire che fino ad ora il loro gioco diplomatico non ha avuto nulla a che fare con la realtà dei fatti che stanno cercando di influenzare". Allo stesso modo Peter Osborne del Telegraph ha notato che"Il Regno Unito ha sostenuto anima e cuore i sunniti -i Sauditi, i paesi del Golfo e AlQaeda- nel loro sempre più sanguinoso ed orribile conflitto contro l'Islam sciita. Per far questo ci possono anche essere ottime ragioni, ma mi piacerebbe che il Primo Ministro ricominciasse a rapportarsi con il mondo reale, si mettesse davanti a tutti e spiegasse che cos'è davvero questa gente". Mark Leonard scrive per la Reuters e fa sue queste stesse sensazioni, suggerendo che fino ad oggi i politici occidentali hanno più volentieri parlato di un intervento militare limitato piuttosto che compiere le scelte, moralmente imbarazzanti, di cui avrebbero bisogno per arrivare ad un accordo politico.
Naturalmente qualunque cosa provochi un cambiamento strategico in Medio Oriente implica dei pericoli. Da una parte, come già fatto notare in precedenti occasioni da Conflicts Forum, questo accenderà in alcune parti del mondo sunnita risentimenti misti ad un senso di sconforto ancora maggiore, ma ci sono occasioni in cui in un conflitto l'unica alternativa praticabile rispetto al far crescere l'ostilità è quella, peggiore, dell'accettare la sconfitta strategica. Da un'altra parte, già si levano voci a Washington che sostengono che oggi come oggi l'interesse degli occidentali è semplicemente quello di tenere acceso il conflitto, cosa che costituisce un'alternativa tra tornare all'iniziale invito ad andarsene che il Presidente Obama rivolse al Presidente Assad e l'accettare un ulteriore arretramento in Medio Oriente, visto come un qualcosa che l'Occidente non potrebbe permettersi senza perdere la faccia. E' molto dubbio che Mosca aiuterà l'Europa e l'America a togliersi dal ginepraio in cui si sono cacciate, anche perché la "soluzione politica" da esse proposta è perita ad Istanbul per autocombustione.

Turchia. E' inverosimile che le recenti sommose popolari in Turchia toglieranno la poltrona al Primo Ministro. Erdogan è un combattente e può ancora contare su un sostegno sostanziale anche se lievemente indebolito. Come scrive il giornalista sionista Ben Caspit, Erdogan è vissuto fino ad oggi nella convinzione di essere un dominatore onnipotente, uno cui basta desiderarlo per incoronarsi presidente o dichiarare che il sole sorge a sud per pretendere che esso tramonti secondo i suoi desideri; invece d'ora in poi per Erdogan nulla sarà più da considerare garantito. E' chiaro che prima di abbandonarsi al suo prossimo capriccio, Erdogan dovrà pensarci su almeno due volte. Tutto quello che fino ad oggi è stato facile diventerà difficile, comprese le elezioni incombenti.
Qualunque direzione prenderanno le proteste in Turchia sono destinate a ramificarsi in tutto il mondo musulmano; se si scorrono i commenti in turco pubblicati da Conflicts Forum nel corso dell'ultima settimana, ne emerge con chiarezza il ricorrere della testardaggine e dell'ostinazione di Erdogan, ma anche il fatto che latori di opinioni di ogni orientamento lamentano concordi che gli obiettivi commerciali e di mercato sono diventati un aspetto surdimensionato della sua egemonia. Detto altrimenti, i liberali e le élite hanno protestato per la scomparsa dei loro spazi culturali in nome delle esigenze del mercato, mentre la popolazione più povera ha lamentato la distruzione dei propri spazi fisici e degli alberi in nome dei centri commerciali. La repressione poliziesca si è accompagnata all'atteggiamento protervo e in stile Maria Antonietta che Erdogan ha tenuto nei confronti delle proteste, che hanno semplicemente unito questi due distinti fronti dello scontento in una generale reazione di popolo. Ad accomunare tutti c'era la sensazione di essere stati deliberatamente messi ai margini e svuotati di ogni possibilità da una leadership smaccatamente neoliberista e prevaricatrice. 
Adesso è interessante capire in che modo questa reazione popolare influirà sui Fratelli Musulmani, su Hamas e su En-Nahda, tutte formazioni che hanno adattato in modo molto stretto la propria visione politica ed economica a quella di Erdogan, secondo modalità molto caratteristiche dell'una o dell'altra. Le proteste hanno portato l'istinto autoritario ed antipluralista dell'AKP sotto gli occhi di tutti: si veda ad esempio questo perentorio scritto di un parlamentare dell'AKP di lunghissima esperienza. Le proteste hanno anche aumentato la consapevolezza a livello internazionale della visione smaccatamente neoliberista che l'AKP avanza in materia di economia. I sunniti di oggi davvero si fanno rappresentare da una bandiera che ha i simboli dell'autoritarismo e del neoliberismo? E' questo il modello di società che intendono difendere? Quello che succede in Turchia, anche se gli eventi saranno destinati a rientrare presto nella normalità- lascerà i movimenti su elencati ad affrontare imbarazzanti interrogativi sulla loro difesa di un "modello turco" per il futuro del Medio Oriente, gettando ancora più ombre su quello che essi intendono difendere oggi.

I sondaggi sulle elezioni presidenziali in Iran. Un sondaggio appena tenutosi in Iran evidenzia le seguenti percentuali per il sostegno agli otto principali candidati alla presidenza in occasione della prima tornata di consultazioni, in programma per il 14 giugno.

Percentuale degli aventi diritto intenzionata a partecipare: 71%.
Mohammad Bagher Ghalibaf 23%
Mohsen Rezaei 14%
Hassan Rowhani 13%
Saeed Jalili 10%
Ali Akbar Velayati 8%
Mohammad Reza Aref 6%
Mohammad Gharazi 2%
Gholam Ali Haddad Adel 2%

Ghalibaf è il sindaco di Tehran ed è probabile che superi il turno; Rowhani e Aref sono in campo per i riformisti; il poco riscontro di Velayati viene attribuito alla debolezza che ha mostrato durante i dibattiti televisivi e al carente lavoro nel campo delle pubbliche relazioni. Haddad Adel è stato presidente del parlamento ed ha poche probabilità di successo perché ha messo in chiaro fin da subito che intendeva ritirarsi dalla competizione -ed in un certo senso si è già ritirato-  e la sua candidatura non è stata quindi considerata di peso. Gharazi è un indipendente.
Non si pensa che la politica estera iraniana andrà incontro a mutamenti sostanziali, chiunque venga eletto alla presidenza; ci si attende invece che la prossima presidenza sarà caratterizzata da un cambiamento nello stile, e che questa tornata elettorale serva da occasione per maggiori aperture al mondo esterno, chiunque sia il vincitore.

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