sabato 10 novembre 2012

Mike Whitney: Afghanistan, aria di sconfitta


Impossibile tenere il paese.
Dopo anni di perdite sanguinose le truppe statunitensi -pardon, le truppe sovietiche- abbandonano l'Afghanistan.

Nel novembre 2005 le elezioni presidenziali in AmeriKKKa assegnarono un secondo mandato a George Diabolus Bush, la cui amministrazione aveva all'epoca già aggredito ed occupato due paesi sovrani e si apprestava a mettere in atto gli stessi comportamenti nei confronti di un'altra mezza dozzina di realtà geopolitiche invise.
I mass media "occidentalisti" rispettarono le consegne e i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana furono sottoposti per qualche giorno ad un fuoco di fila di riprese video e immagini digitali in cui un aggregato di cialtroni venuti su a fast food, di pluriripetenti, di buoni a nulla ben vestiti, di obesi in cravatta e di altri generi e specie di umanità cialtrona, ingorda, inconsapevole e viziata sbraitavano "Four more years! Four more years!".
Si trattava di scene di giubilo ampiamente giustificate, essendo l'elettorato amriki composto da gente che nella maggioranza dei casi era -ed è- così entomologicamente consapevole di sé da risultare incapace di trovare su una carta geografica i paesi che il costosissimo apparato bellico statunitense stava angariando da anni.
Nello stato che occupa la penisola italiana la cosa fu accolta con soddisfazione da vari yankee di complemento, cui si voleva conferisse credibilità il dominio completo del mainstream.
Nel 2009 i risultati dei four more years erano stati tali da far classificare la presidenza Bush come la peggiore in assoluto in tutta la storia della federazione e da far cambiare apparentemente di segno persino le scelte dell'elettorato, cosa che date le condizioni di base non era affatto da dare per scontata.
Il ripetersi della stessa scelta nel novembre del 2012 non è stato accolto da alcuna campagna mediatica all'insegna del giubilo, e non soltanto perché è stato riconfermato un individuo sgradito all'occidentalame.
La politica massmediale "occidentalista" mena vanto solo di quanto va nella direzione del cupio dissolvi, della disgregazione, della dissoluzione e del Male metafisico e non può certo associarsi al plauso di quanti hanno sostenuto una visione politica e sociale che, pur non discostandosi quasi per nulla da quella che essa veicola, è incarnata da individui che la propaganda "occidentalista" ha il remunerativo compito di denigrare ripetendo ecoicamente le istanze più ebefreniche prodotte dagli ambienti politici yankee di riferimento.
Questa ripetizione ecoica ha portato a risultati ai limiti del riferibile, come la tentata promozione di un tea party c'a' pummarola 'n coppa, raggiunti mentre chi si ostinava a conservare un barlume di razionalità veniva additato ora come pacifinto, ora come saddamita.
Intanto che la propaganda continuava a produrre e diffondere video ed immagini, il Nemico lavorava.
Non nell'ombra, ma alla luce del sole. E con ottimi risultati.
Il Nemico, i lettori lo sanno, si chiama realtà.
Ed è motivo di una certa soddisfazione per chi fa orgogliosamente e consapevolmente parte del buco nero dell'Occidente e della Prima Internazionale dell'Odio pensare di averla sempre più spesso dalla propria parte.


Afghanistan: aria di sconfitta
(di Mike Whitney)

Traduzione da Counterpunch


"Queste due visioni del mondo, una fatta di tirannia e di morte, l'altra di libertà e di vita, si sono scontrate in Afghanistan. E grazie ai coraggiosi soldati degli Stati Uniti e della coalizione internazionale, grazie ai patrioti afghani, l'incubo dei talebani è finito e quel paese sta tornando alla vita".

George Diabolus Bush, discorso tenuto al Accademia Militare dell'esercito, 2004.

Calma, George.
Gli Stati Uniti non hanno liberato l’Afghanistan.
Non hanno ricostruito l’Afghanistan.
Non hanno rovesciato i signori della guerra, non hanno fatto diminuire la produzione di oppio, non hanno fondato istituzioni democratiche forti, e neppure reso migliore l'esistenza della gente comune che lavora. Gli Stati Uniti non hanno raggiunto nessuno dei loro obiettivi strategici. I talebani sono più forti che mai, il governo centrale è una corrotta corte dei miracoli e, dopo undici anni di guerra, il paese è in rovina.
Tutto questo somiglia ad una sconfitta. L'esercito degli Stati Uniti è stato sconfitto da una milizia male armata che ha dimostrato di saper padroneggiare meglio la guerra moderna e gli scontri di tipo asimmetrico. I talebani hanno fatto vedere di essere più versatili, più motivati, più furbi. Ecco perché hanno vinto. Ecco perché hanno battuto l'esercito più celebrato del mondo.
Questi sono discorsi che agli americani non piace sentire. Sono molto orgogliosi del loro esercito e sono disposti a pagare fino a un trilione di dollari l’anno per tenerlo equipaggiato con gli armamenti più avanzati del mondo. Ma le armi non vincono le guerre, né le vince la propaganda. Se così fosse, gli Stati Uniti avrebbero vinto da un pezzo, ma così non è. Le guerre si vincono con la tattica, con le operazioni sul campo, con la strategia. Ecco su cosa ci si deve concentrare se si vuole avere successo. Ecco una citazione da un articolo di William S. Lind che spiega come mai la missione statunitense in Afghanistan ha fallito:

Una regola generale nelle cose della guerra è che un livello superiore trionfa su un livello inferiore, e la mera tecnica ricopre il livello più basso. I nostri SEALs, i Rangers, la Delta Force, le forze speciali e tutto il resto sono nettamente superiori ai talebani o ad Al Qaeda nel campo della tecnica. Ma questi avversari si sono a volte dimostrati abili nella tattica, nelle operazioni sul campo e nella strategia, e noi possiamo batterli solo se li superiamo su questi livelli, che nelle cose della guerra occupano una posizione più alta. Purtroppo è proprio in questi campi che le Forze Speciali non hanno nulla da offrire. Sono soltanto un proiettile di piombo in più, in un obsoleto arsenale di seconda generazione. ("What’s so special about Special Ops?", William S. Lind, The American Conservative)
Tutte le diavolerie ad alto contenuto tecnologico e i droni autoguidati dell’esercito statunitense si limitano a nascondere il fatto che l’America sta ancora combattendo la guerra che precedeva questa, e non si è adattata al nuovo stato di cose. Ecco un altro commento di Lind che viene a confermare questo concetto:

La più grande sfida intellettuale, nel caso delle guerre di quarta generazione –guerre contro nemici che non sono degli stati sovrani- è quella di come combatterle sul campo. La NATO in Afghanistan, come i sovietici tre decenni fa, non è riuscita a venire a capo del problema. I talebani, invece, sembra che ci siano riusciti...
L’esercito sovietico concentrò le sue risorse migliori nelle operazioni sul campo. Ma in Afghanistan fallì, come abbiamo fallito noi. Come i sovietici, noi possiamo conquistare e tenere qualsiasi posizione sul terreno in Afghanistan. Ma il farlo, così come successe ai sovietici, non ci porta neanche un passo più vicino alla vittoria strategica. I talebani, al contrario, hanno trovato un modo elegante per mettere insieme strategia e tattica mettendosi a combattere una moderna guerra decentralizzata.
La NATO chiama strategia un qualche cosa che consiste nell'addestrare abbastanza militari afghani per tenere a bada i talebani dopo il ritiro delle proprie forze. I talebani hanno reagito piazzando loro uomini in uniforme afghana, molti dei quali sono davero soldati o poliziotti governativi, che puntano le armi verso i loro istruttori della NATO. Si tratta di un colpo mortale per la nostra strategia perché rende impossibili le missioni di addestramento. Bel risultato, per le competenze operative nella guerra di quarta generazione...
I talebani sanno che questa tecnica è una tecnica operativa e non solo tattica. Ci si può aspettare che riporranno tutti i loro sforzi in essa. Quali contromisure possiamo prendere? Non possiamo fare altro che ordinare ai nostri soldati di far finta che non stia succedendo niente e di continuare a fidarsi dei loro commilitoni afghani. Un ordine simile, se applicato, metterà i nostri soldati in una posizione tanto insostenibile che il loro morale finirà per crollare. (“Unfriendly Fire”, William S. Lind, The American Conservative)
Lind non sottovaluta i talebani, né li derubrica a "caprai ignoranti". In realtà, sembra ammirare il modo in cui essi hanno interpretato la guerra di quarta generazione e battuto un nemico che dispone di tecnologia, comunicazioni e potenza di fuoco nettamente superiori. Tutto questo contribuisce alla dimostrazione della sua tesi di fondo, ovvero che la tattica, le operazioni sul campo e la strategia sono quello che più conta.

Per più di dieci anni i talebani hanno portato avanti una guerriglia impressionante, vanificando i tentativi degli Stati Uniti di stabilire una situazione sicura, di tenere posizioni sul terreno o di far crescere l'area di influenza del governo centrale di Karzai. Nel corso dell’ultimo anno, gli sforzi compiuti dai miliziani si sono dimostrati remunerativi perché gli attacchi del tipo chiamato “green on blu”, che sono quelli messi a segno da poliziotti e militari Afgani contro le truppe della coalizione, hanno scompaginato i piani statunitensi per mantenere un governo amico a Kabul dopo il termine delle operazioni belliche ed il ritiro delle truppe. I talebani hanno trovato l’anello debole nella strategia del Pentagono e se ne sono serviti a proprio pieno vantaggio. Come spiega Joshua Fust, un esperto dello American Security Project per l'Asia centrale e meridionale, “La missione di addestramento è alla base della strategia oggi in atto. Senza quella missione, la strategia crolla. La guerra è alla deriva, ed è difficile pensare che a questo punto si possa evitare un disastro totale.” (“The Day we lost Afghanistan”, Joshua Foust, The National Interest)


E' tempo di tagliare la corda?

I continui attacchi del tipo green on blu hanno convinto i leader degli Stati Uniti e della NATO che questa guerra non si potrà vincere; per questo motivo il Presidente Barack Obama ha deciso di gettare la spugna. Ecco un dettaglio da un discorso che Obama ha tenuto a maggio, durante una conferenza della NATO a Chicago:

Non penso ci sarà mai uno di quei momenti ideali nel quale potremmo dire "è tutto compiuto, tutto è andato bene, siamo arrivati dove volevamo arrivare e ora possiamo impacchettare tutto e tornarcene a casa” ... La nostra coalizione si sta impegnando in un piano che consenta di portare la guerra che abbiamo intrapreso in Afghanistan ad una conclusione responsabile.
La classe politica sta dicendo che abbandonerà. Hanno deciso di smetterla di rimetterci e di andarsene. Ecco come lo riassume il New York Times:

Dopo più di un decennio di sangue americano versato in Afghanistan... è giunta l’ora per le forze statunitensi di lasciare l’Afghanistan... Non ci dovrebbe volere più di un anno. Gli Stati Uniti non raggiungeranno neanche gli obbiettivi, ridimensionati, del Presidente Obama, e prolungare la guerra porterà soltanto a danni ancora più gravi...
Gli Ufficiali dell'amministrazione dicono che non considereranno una “ritirata logistica” sicura, ma non offrono nessuna speranza di raggiungere neppure livelli minimi di governabilità e di sicurezza. E l’unica missione finale di cui siamo a conoscenza, quella arrivare a fare in modo che una consultazione elettorale afghana nel 2014 si svolga in condizioni di sicurezza, sembra nel migliore dei casi essere in dubbio...
L’idea di realizzare compiutamente obiettivi collegati a più ampi intenti di democrazia e di sicurezza diventa sempre più sfuggente... Continuare a combattere ancora non consoliderà i modesti progressi fatti con questa guerra, e sembrano anche esserci poche probabilità di garantire che i talebani non torneranno.
L’Afghanistan post-americano sarà presumibilmente più presentabile della Corea del Nord, meno presentabile dell’Iraq e forse più o meno come il Vietnam. Ma quanto a risultati fa parte dello stesso tipo di esiti controproducenti. Dobbiamo andarcene, finché siamo in tempo a farlo sani e salvi.
Gli interessi globali dell’America ne risentono, quando essa è impelagata in guerre che non può vincere in qualche paese lontano.  (“Time to Pack Up”, New York Times)
Si noti come il Times ometta di citare la Guerra al Terrore, al Qaeda o Bin Laden, tutti argomenti che vennero utilizzati per racogliere sostegno per la guerra. Quello che importa, adesso, sono gli “interessi globali dell’America”.
Un bel voltafaccia, no?
Cosa è successo alla ferrea determinazione di combattere la “giusta battaglia” per tutto il tempo necessario, di liberare le donne afgane, di diffondere la democrazia nella vasta Asia Centrale e di eliminare i fanatici talebani una volta per tutte? Era solo un vuoto atteggiarsi che serviva a far partire la macchina da guerra e a sviare l'opinione pubblica?
Guardate come è facile per il Times virare di centoottanta gradi, quando solo pochi mesi fa provava a persuadere i lettori che avremmo dovuto stringere i denti e rimanere per proteggere le donne afgane. Date un occhiata a questo editoriale dell'agosto 2012, intitolato “Le donne dell'Afghanistan”:
L’Afghanistan può essere una terra difficile e crudele, specie per le donne e le ragazze. Molti temono che saranno ancora più vulnerabili alle dure tradizioni tribali e agli uomini che le impongono dopo la ritirata delle truppe americane nel 2014. I diritti delle donne hanno fatto modesti ma incoraggianti passi avanti nel corso dell'ultimo decennio, ma questi progressi potrebbero scomparire senza un forte impegno per la loro tutela e per il loro sviluppo da parte dei leader afghani, di Washington e degli altri partner internazionali...
...Tutti gli afghani dovrebbero essere coinvolti nel miglioramento della condizione femminile. Come ha affermato la signora Clinton, esistono moltissime indicazoni secondo le quali nessun paese può crescere e prosperare nel mondo di oggi se le donne sono marginalizzate e oppresse. (“The Women of Afghanistan”, New York Times)
Ah, ma com'è che ora dare un mano alle donne afgane "marginalizzate e oppresse" non aiuta gli "interessi globali americani"? Come era lecito aspettarsi, i più nobili sentimenti del Times sono guidati da interessi politici. In ogni caso, la tacita ammissione del Times prova che la guerra non ha mai avuto il proposito di liberare le donne o di diffondere la democrazia, e neanche di uccidere Bin Laden. Era per gli “interessi globali americani”, in particolare per gli oleodotti, per i minerali, per il Grande Gioco, per il controllo delle ricchezze immobiliari della ribollente Eurasia, che sarà il centro economico del prossimo secolo. Ecco perché gli Stati Uniti hanno invaso l'Afghanistan: tutto il resto è propaganda. C’è un’altra evidente omissione nell’articolo del Times che vale la pena notare. Gli editori fanno di tutto per evitare la parola che meglio sintetizza la situazione: sconfitta. Gli Stati Uniti non stanno lasciando l’Afghanistan volontariamente. Sono stati sconfitti. L’esercito degli USA è stato sconfitto proprio come l'esercito dello stato sionista fu sconfitto da Hezbollah nell’estate del 2006, perché hanno sottovalutato la tenacia, lìabilità, la ferocia, l'adattabilità e l'intelligenza del loro avversario. Ecco perché lo stato sionista ha perso la guerra in Libano ed ecco perché gli Stati Uniti hanno perso quella in Afghanistan.
Esiste un motivo per il quale i media non usano la parola “sconfitta”, nonostante sia la più adatta a descrivere la situazione. Perché l'uomo della strada il concetto di sconfitta lo capisce, capisce la vergogna della sconfitta, ne percepisce il dolore e ne prova la rabbia. La sconfitta porta al ripudio dei potenti, è la prova che siamo governati da folli e da cialtroni. La sconfitta è anche un deterrente forte, è un’idea che si ingigantisce nella mente delle persone e le fa diventare contrarie alle intromissioni straniere, alle azioni di polizia e alla guerra. Ecco perché il Times si guarda bene dall'utilizzare questa parola, perché ogni sconfitta fa da antidoto per una successiva aggressione, e questo è proprio quello che il Times non vuole.
Quello che nessuno dei mezzi di comunicazione di massa vuole.

La verità è che gli Stati Uniti, in Afghanistan, sono stati sconfitti. Se riusciamo a capirlo, forse possiamo fermare la prossima guerra prima che abbia inizio.


Mike Whitney vive nello stato di Washington. Ha contribuito al volume Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion (AK Press). Può essere raggiunto a fergiewhitney@msn.com.

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