giovedì 9 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte III, Capitolo 7 - Il rifiuto della subordinazione



Quando Edward Said prese in considerazione la provocatoria affermazione di Sigmund Freud secondo la quale il fondatore dell’ebraismo doveva essere un non ebreo, e l’ebraismo doveva essere nato nell’àmbito del monoteismo egiziano, non di quello ebraico, suppose che l’intenzione di Freud fosse quella di aprire deliberatamente l’identità ebraica all’autentica diversità della propria storia1.
Said affermò nelle sue considerazioni che perfino la scienza dell’archeologia era stata utilizzata da Israele come insieme di dati di fatto dai quali si poteva empiricamente trarre un “diritto naturale” utile al consolidamento dello stato ebraico:
L’archeologia diventa la strada maestra verso la costruzione dell’identità ebraico-israeliana, un’identità in cui si avanza ripetutamente la pretesa che nell’attuale terra d’Israele le affermazioni della Bibbia trovino conferma grazie all’archeologia. La storia biblica viene considerata qualcosa di concreto, ed il passato viene recuperato e messo in ordine dinastico2.
Said riprende questo concetto dalla storia dell’esplorazione archeologica in Palestina scritta da Nadia Abu el Haj3. Abu el Haj, fa notare Said, ha collegato la pratica dell’archeologia agli stessi obiettivi nazionalisti che abbiamo visto nel caso della Turchia: permettere ad uno stato forte ed unitario di impossessarsi della terra tramite l’impianto di insediamenti e di sostituire la toponomastica araba con una nuova di tipo ebraico, secondo le stesse modalità seguite da Ataturk per cancellare l’esistenza dei curdi e degli armeni dai villaggi dell’Anatolia. Questo faceva seguito ad un’ondata di vibrante ed escludente nazionalismo di tipo europeo che fin dal XIX secolo aveva coagulato stati nazionali attorno a gruppi caratterizzati da un’omogeneità di etnia o di appartenenza religiosa.
Questa deliberata demolizione della storia culturale della Palestina alla fine facilitò l’ascesa del graduale emergere di una archeologia palestinese. Una ascesa  stimolata, almeno in parte, dal sorgere di una concezione revisionista della storia in Israele nel corso degli anni Ottanta del XX secolo, che diede una base storica alla distruzione deliberata ed alla cancellazione e alla demolizione delle città e dei villaggi palestinesi nel corso del conflitto del 1948, traendola da fonti ebraiche contemporanee. La nascita di un’archeologia palestinese venne considerata una sorta di “resistenza nel campo dell’archeologia” e come una risposta provocatoria al deliberato tentativo di denegare l’identità palestinese.
Di un tipo particolare di insediamento coloniale è stata asserita l’esistenza a partire da uno stato delle cose fatto di labili tracce archeologiche, cui si è giunti dai i riscontri di insediamenti che potevano essere reperiti sul terreno. Queste tracce sono servite come frammenti sparsi, a partire dai quali è stata messa insieme una sorta di biografia degli spazi. Partendo da simili “dati di fatto”, così come da uno statuito “ordine naturale” degli eventi storici, è stata dedotta l’esistenza di uno stato ebraico che diventasse la patria degli ebrei4.
Questa scientificità di sapore positivista riecheggiava bene il tema cristiano della storia degli insediamenti americani e della pulizia etnica nelle nuove colonie in Nord America: “Noi siamo il popolo eletto, l’Israele dei nostri tempi; portiamo l’arca delle libertà del mondo”, scrisse Herman Melville in Giacchetta bianca  nel 18505, molto tempo prima della fondazione dello stato israeliano.
Nella stessa lezione, Edward Said citava la disamina degli effetti del colonialismo europeo sulla psiche degli algerini operata da Frantz Fanon, e la indicava come la chiave indispensabile per comprendere le conseguenze del pensiero nazionalista a carattere escludente in uso nello Stato di Israele. Il riferimento a Fanon operato da Said sottolinea il fatto che moltissimi tra i pensatori islamici di una qualche influenza sono stati profondamente influenzati sul piano ideologico dalla potente analisi di Fanon: Qutb ed Ali Shariati, l’ideologo ed il mobilitatore della Rivoluzione Iraniana, l’ayatollah Fadlallah e Musa al Sadr, i due pensatori di riferimento che tanta importanza hanno avuto per l’evoluzione del pensiero di Hezbollah, facevano tutti riferimento a Fanon, in un modo o nell’altro.
Quando i palestinesi considerano la gente arrivata da fuori per prendere la loro terra e stabilirvisi, vedono poca differenza tra questi arrivi più recenti ed i colonialisti francesi che avevano occupato l’Algeria di cui parla Fanon: in tutti i casi erano europei bianchi che accampavano diritti superiori sul territorio rispetto ai non europei che ne erano originari.
Benedict Anderson fornisce un esempio che possiamo considerare tipico della politica coloniale “contro i barbari”, formulato all’inizio del XIX secolo dal “liberale” colombiano Pedro Fermin de Vargas:
Per espandere le zone da noi coltivate sarebbe necessario ispanizzare gli indiani che ci sono qui. La loro inerzia, la loro stupidità e la loro indifferenza verso obiettivi normali fa pensare che derivino da una razza degenerata che si deteriora quanto più si allontana dalle proprie origini… sarebbe davvero desiderabile che gli indiani si estinguessero tramite gli incroci con i bianchi, che sarebbe bene incentivare esentandoli da tasse ed altri tributi e intitolando loro qualche proprietà privata6.
Simili atteggiamenti non erano certo rari, colmi com’erano di disprezzo per le razze inferiori; come abbiamo visto nell’atteggiamento dei tedeschi nei confronti della Turchia ed in quello dei francesi verso l’Algeria se ne trovano copie perfette.
Anderson nota
…la condiscendente crudeltà e l’ottimismo cosmico [di questo proposito]: in fin dei conti gli indiani sono redimibili, ma anziché sterminarli con le armi da fuoco o con le malattie contagiose come i suoi [di Vargas] eredi avrebbero cominciato a fare poco tempo dopo in Brasile, in Argentina e negli Stati Uniti, vanno [redenti] fecondandoli con seme bianco e civilizzato e con l’acquisizione della proprietà privata, come chiunque altro7.
Gli europei si appropriarono delle terre in Algeria basandosi sulla stessa missione redentrice europea che ha costituito il tema centrale di precedenti capitoli di questo volume. I pretesi “diritti speciali” di Israele e l’accampato titolo superiore su terre che erano state occupate da non europei vengono inquadrati nello status di “paese civilizzato” del paese, presentato come “l’unica democrazia del Medio Oriente” ed anche nella cornice di speciali “diritti ebraici” intesi come diritti umani naturali che derivano da fatti storici, fatti storici a loro volta “recuperati” e trasformati in qualcosa di concreto da una scienza che ha facilitato la costruzione di quella che Edward Said ha definito una identità ebraico-israeliana “sigillata”.


Liberalismo e diritti
All’inizio del 2007 Adalah, un’organizzazione che si occupa di diritti umani impegnata per i diritti della minoranza araba in Israele, ha prodotto una bozza di costituzione per lo stato d’Israele, che non ha una costituzione8. Secondo il presidente di Adalah, il professor Dwairy, lo scopo della bozza era quello di
…proporre una costituzione democratica che contemplasse il rispetto delle libertà dell’individuo ed i diritti di tutti i gruppi in ugual misura, assegnasse il giusto peso alle storiche ingiustizie commesse contro i cittadini arabi di Israele, e si occupasse sul serio dei diritti sociali ed economici di tutti9.
Gli israeliani hanno reagito con rabbia e sdegno ad una proposta che avrebbe lasciato la maggioranza ebraica libera di mantenere le proprie caratteristiche attraverso le istituzioni educative e culturali, ma che insisteva sul fatto che finché Israele avesse continuato a definirsi stato ebraico il suo apparato legale avrebbe sempre difettato dei principi democratici di base che riguardano il diritto di tutti i cittadini alla piena uguaglianza. Un principio che, se accettato, sfocerebbe nella fine della ingiusta discriminazione strutturale che colpisce i cittadini arabi di Israele, nonché la fine dell’esclusione della minoranza araba che si basa sulla definizione dello stato come stato ebraico.
Non molto tempo dopo la pubblicazione della bozza, i quotidiani israeliani diedero notizia del fatto che un ufficiale superiore ha avvertito il Primo Ministro che la radicalizzazione dell’atteggiamento dei cittadini arabi costituiva una “minaccia strategica” all’esistenza di Israele, aggiungendo anche che “il proliferare di documenti visionari pubblicati da diversi gruppi elitari arabi in Israele è particolarmente preoccupante, [perché] i documenti sono accomunati dalla concezione di Israele come stato di tutti i suoi cittadini e non come stato ebraico”10.
La vicenda sulla stampa occidentale fece a malapena capolino, ma nel suo piccolo rivela l’illiberalità del “liberalismo” occidentale ed israeliano, nonché il senso di ansia e la paura che circondano quelli che l’Occidente definisce “allogeni”-mentre in realtà sono migranti o persone in cerca di asilo- “estremisti islamici” o “arabi”. L’ingiustizia che questi “allogeni” possono avvertire in quanto minoranza discriminata e privata della propria cultura, viene sminuito come naturale ma nondimeno minacciosa risposta, che nasce dalla loro incapacità di elevarsi rispetto ai loro istinti culturali cristallizzati. Vengono considerati come una forza reazionaria rimasta invischiata nei valori tradizionali, incapace di abbracciare la “tolleranza” e che è bene sia soppressa prima che prenda il sopravvento e minacci l’esistenza della “società aperta”.
Un capo di Hamas ha detto che la resistenza armata non era soltanto un modo per reagire alle costrizioni loro imposte con la forza. Tenne molto a che fosse chiaro che la resistenza serviva a “difendere i diritti del nostro popolo e ad obbligare Israele e la comunità internazionale ad accettare che la nostra narrativa sui fatti del 1948 e i nostri diritti di palestinesi non hanno meno valore a paragone della narrativa e dei diritti di chiunque altro”.  La sua affermazione rappresentava, in un certo senso, un modo per protestare contro il dilagare dell’ingiustizia sociale su base razziale.
Essa riflette anche i timori di Isaiah Berlin in merito ad una collettività il cui sentire è stato profondamente offeso dagli eventi storici. “Quella di essere oggetto di disprezzo, o di una tolleranza venata di sufficienza”, scrisse, “è una delle esperienze più traumatiche che le persone o le società possano sperimentare”11 . Rappresenta anche una delle più grandi fonti di disperazione per l’uomo, radicata nell’impotenza e nella marginalizzazione che non possono essere trattenute oltre entro i limiti dei confini nazionali.
Quando in un’intervista del 2008 al capo di Hamas Khaled Mesha’al fu introdotto questo argomento, egli rispose:
Lasciate che vi fornisca alcune immagini che esprimono quello che penso del mio paese. Anche se ho vissuto nel mio villaggio fino ad undici anni soltanto, esso ha ancora oggi sulla mia vita un’influenza potente. Gli anni che vi ho trascorso rappresentano per me quello che le radici rappresentano per un albero. Il mio piacere più grande è spalancare la finestra, vedere gli alberi ed il sole che sorge o che tramonta. Il mio piacere più grande è andare al parco e ricordare, mentre mi siedo sulla nuda terra, l’odore della terra di Palestina, della terra del paese di Silwad.
Questo sentimento di appartenenza alla propria terra, io credo, è connaturato ad ogni essere umano. Quello che non è naturale è che una persona ne venga tagliata fuori. Eppure è la condizione in cui mi trovo io adesso, insieme a milioni di palestinesi. Ed esiste anche un altro aspetto da considerare: sentire di appartenere ad una terra significa sentire di appartenere alla propria storia. Come dice il proverbio, Chi non ha un passato non ha neppure un presente. Dove sono le vostre radici? A quale luogo appartenete? Che identità avete? Se perdete tutto questo, diventati soltanto ingranaggi in una macchina, o un granello di polvere nel vento. Non valete più niente12.
La risposta di Hamas, il Movimento di Resistenza Islamico, a questa situazione è stata la resistenza. Edward Said, nel suo colloquio a Londra, fece ricorso a Frantz Fanon per spiegare l’impatto della forma laica del nazionalismo sionista sul sentire dei palestinesi. Si è trattato di un riferimento calzante: il modo in cui Hamas intende la resistenza è sempre stato diverso da quello di Hezbollah, anche se entrambi considerano il fatto di essere sotto occupazione come il loro comune catalizzatore iniziale. Hamas fa riferimento ai Fratelli Musulmani egiziani, quelli di Sayyid Qutb. All’inizio il riferimento essenziale era all’avanguardismo ed al proselitismo tipici di quell’organizzazione. Quello dei Fratelli era un movimento generalmente non violento che realizzava iniziative di carità basandosi più sul senso della tradizione islamica che non sul fatto che esse potessero costituire un strumento politico per attirare consensi alla causa. Queste radici erano le stesse di Hamas e rappresentano il contesto a partire dal quale Hamas si sviluppò come movimento rivoluzionario.
Mentre Hezbollah ha sviluppato una propria dottrina ideologica per restituire alla cultura la sua dimensione politica, per invertire l’opposizione tra cultura collettiva e cultura privata e per costruire una sfera sociale attorno al pensiero critico ed indipendente, Hamas ha basato gran parte del proprio resistere sui sentimenti e sulle emozioni della popolazione.
Questo non significa che la resistenza di Hamas, come avremo modo di verificare, non sia altro che una risposta emotiva delle vittime alla violenza perpetrata contro di loro, nonostante esistano situazioni limite in cui il desiderio di vendetta rappresenta ancora un fattore potente. Allo stesso modo di Hezbollah, Hamas concepisce la resistenza come uno strumento tramite il quale controllare e dirigere i sentimenti molto coinvolgenti che l’occupazione e l’umiliazione che ne consegue hanno scatenato.
In quest’ottica cercheremo di mostrare le componenti psicologiche che concorrono alla resistenza, tramite le considerazioni di Fanon e le espressioni dei combattenti palestinesi in carcere. Arriveremo a supporre che Hamas consideri la resistenza come un mezzo per generare i sentimenti che si traducono in un accrescimento della coesione comunitaria e nel rispetto di se stessi. Sulla base di tutto questo Hamas pensa che l’azione armata finirà per facilitare una soluzione politica definitiva della questione palestinese. Hamas non pensa che la sua resistenza armata sia sufficiente di per sé per arrivare alla sconfitta militare di Israele. I suoi obiettivi sono legati al rifiuto della subordinazione, all’instaurare un equilibrio psicologico con Israele che possa in fin dei conti rendere più facile il raggiungimento di una soluzione politica, ed alla rifondazione di un’etica fondata sul rispetto e sulla stima reciproca tra i palestinesi.


L’emersione di un modello e di una ideologia islamici in Palestina
Le origini di Hamas e del movimento Fatah, a suo tempo guidato da Yasser Arafat ed oggi guidato da Mahmoud Abbas, nonché quelle delle loro classi dirigenti vanno cercate nei Fratelli Musulmani, in Egitto. Il movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto era un movimento di natura esplicitamente politica e dedito ad iniziative caritatevoli che dapprincipio si oppose al colonialismo e ad una monarchia imposta dall’Occidente. Non fu toccato dall’avanguardismo armato degli anni Settanta e Ottanta che in Egitto condusse all’assassinio del presidente Anwar Sadat. Durante gli anni Trenta, sotto l’influenza dei coloni ebrei e con l’inizio delle schermaglie, la questione palestinese si stava trasformando in un argomento piuttosto sentito tanto per gli egiziani in genere quanto per i Fratelli in particolare. La prima branca palestinese dei Fratelli fu fondata a Gaza a metà degli anni Trenta.
La guerra del 1948 seguita alla fondazione dello Stato di Israele provocò una divisione tra i Fratelli Musulmani in Palestina. Con l’annessione della West Bank da parte della Giordania, gli appartenenti ai Fratelli Musulmani che vivevano nei territori annessi adottarono un approccio essenzialmente apolitico e fondato sull’educazione. I Fratelli diventarono una specie di “opposizione leale”, molto addomesticata, al re di Giordania.
A Gaza, al contrario, alcuni gruppi interni ai Fratelli cominciarono a sviluppare un embrione di resistenza armata. Nello stesso periodo in Libano venivano fondati dei movimenti laici e nazionalisti per la resistenza armata, il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP).
Dall’inizio degli anni Cinquanta e fino ai primi anni Ottanta, i Fratelli Musulmani evitarono di farsi coinvolgere in attività militari e si concentrarono, con pazienza ed in modo quasi esclusivo, su compiti educativi e caritatevoli. Questa attenzione per il buon agire divenne tanto dominante che le questioni politiche finirono quasi per scomparire dalle attività dell’organizzazione.
Nel periodo di tempo compreso fino al 1956, la resistenza armata era virtualmente cessata. Con la traumatica occupazione israeliana di Gaza nel 1957, che si protrasse per quattro mesi, tra le forze nazionali si fecero strada due diversi modi di intendere il modo di affrontare l’occupazione militare israeliana: mentre i comunisti palestinesi esortavano alla resistenza passiva contro l’occupazione, pochi eminenti appartenenti ai Fratelli formarono una cellula militare non autorizzata ed invitarono i loro capi ad adottare una strategia basata sulla lotta armata. I capi dei Fratelli Musulmani posero il loro veto, e decisero che l’organizzazione dovesse concentrarsi sugli ormai consueti compiti educativi ed assistenziali.
Nel 1958 questi dissidenti fondarono il Movimento di Resistenza Nazionale, o Fatah, insieme a vecchi baathisti o a politici nazionalisti come Yasser Arafat; Fatah ruppe i rapporti con i Fratelli Musulmani.
Nel periodo successivo al 1967 e fino all’inizio degli anni Ottanta, la politica palestinese è rimasta dominata dalla figura di Yasser Arafat, e Fatah aveva un ruolo centrale ed era presenza predominante nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che operava facendo base in Libano.  La strategia politica di Fatah e dell’OLP poteva contare su correnti laiche e nazionaliste: Fatah non era soltanto esplicitamente laica; implicitamente, più che esplicitamente, era anche islamica. Era stata concepita, da Arafat almeno, come un movimento accomunante capace di mettere d’accordo la maggior parte delle correnti ideologiche.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta Fatah e l’OLP non conseguirono alcun successo nel raggiungimento di una soluzione politica del conflitto israelopalestinese, nonostante fossero riusciti a mettere in piedi un’organizzazione riconosciuta a livello internazionale e a portare a segno molte operazioni militari clamorose.
Arafat, la figura di riferimento sia di Fatah che dell’OLP, iniziò a mandare segnali della sua disponibilità a venire a compromessi sulla questione dello stato palestinese fin dal 1973. Gli sforzi di Arafat portarono poco lontano, e il fatto che avesse deciso di concedere simili aperture generò un profondo scetticismo nel movimento nazionale palestinese e contribuì a raffreddare gli animi anche all’interno di Fatah.
La disaffezione nei confronti di Arafat e della sua politica fatta di segnali di disponibilità al compromesso raggiunse il massimo durante la Rivoluzione Iraniana del 1979, momento in cui i palestinesi e gli iraniani che avevano scelto la via della rivoluzione lanciarono un’ondata di cortei di protesta contro il capo dell’OLP, considerato colpevole di acquiescenza nei confronti delle pretese di Israele di essere considerato uno stato legittimo. L’impatto emotivo della rivoluzione aveva cambiato il sentire dei palestinesi ed aveva infuso loro energia, facendogli vedere fin dove si poteva arrivare, a dispetto di tutti i dubbi e di tutte le attese.
Dopo questo evento epocale e foriero di una nuova visione ideologica, una nuova generazione di leader palestinesi iniziò ad affermarsi, ispirata dalla stessa linea di pensiero e dal modello rivoluzionario islamico. A questo fenomeno si accompagnò un crescente disincanto popolare nei confronti dei comunisti palestinesi e degli altri partiti laici.
I Fratelli Musulmani avvertirono questo cambiamento ed iniziarono a mobilitarsi nelle scuole, nelle moschee e nelle università di Gaza e della West Bank. Fatah intese questa ondata di attivismo come una specie di concorrenza indesiderata, e pure cominciarono scontri tra i due movimenti, anche se persero velocemente di intensità.
All’epoca era in essere l’occupazione israeliana, con una crescente repressione militare sia nella West Bank che a Gaza. Il risentimento popolare contro gli occupanti crebbe e si fece più aspro, ed allo stesso tempo aumentò la pressione popolare sui vari movimenti palestinesi perché reagissero militarmente all’occupazione.
Nonostante le pressioni i capi dei Fratelli Musulmani, calmi come sempre, risposero al clamore popolare prodigandosi in consigli di prudenza e continuando ad impegnarsi nelle loro attività caritatevoli ed educative. Questa linea di condotta fu percepita come un insulto da molti appartenenti: c’erano i carri armati israeliani fermi nelle strade in cui vivevano e sembrò loro umiliante che gli si chiedesse di continuare soltanto ad assistere le vedove e gli orfani; tutto questo rafforzò il ruolo di Fatah come organizzazione al vertice della resistenza palestinese.
Gli appartenenti ai Fratelli Musulmani volevano qualcosa di più: le prediche del venerdì e l’attenzione per i poveri non erano abbastanza. All’inizio i capi dei Fratelli Musulmani cedettero, ma solo fino al punto di acconsentire alle manifestazioni studentesche. Non era certo abbastanza, e l’aver intuito il fatto che i Fratelli stavano andando incontro al fallimento convinse uno degli attivisti, lo sceicco Ahmed Yassin, a prendere in considerazione l’idea di rompere con la direzione e con la linea politica dell’organizzazione cui apparteneva.
Yassin era un uomo carismatico. Era un religioso paraplegico e ridotto in sedia a rotelle, ed aveva passato in carcere molti anni; ma i suoi occhi vivaci, il suo penetrante intelletto e la sua ferrea volontà lo avevano reso un personaggio popolare. Un po’ ovunque era considerato un bravo ed empatico mediatore nelle dispute tra persone, ed era tenuto in considerazione per queste sue qualità da palestinesi di convinzioni politiche molto diverse tra loro.
Mentre Yassin stava riflettendo sui suoi propositi di dissidenza, i Fratelli Musulmani furono scossi da uno scisma molto rilevante: gli aderenti che erano stati influenzati dagli ideali e dal fervore della Rivoluzione Iraniana uscirono dall’organizzazione per formare la Jihad Islamica.


L’inizio della resistenza armata

L’uscita della Jihad Islamica spinse ad attivarsi i capi dei Fratelli Musulmani, ma l’organizzazione continuò a comportarsi in modo esitante. Alla fine fu l’occupazione, che sotto la guida di Ariel Sharon si era fatta estremamente aggressiva, a rompere gli indugi: i Fratelli si decisero a replicare formando una struttura compartimentata, lanciando una campagna di resistenza passiva e dedicandosi ad azioni militari.
Sotto la guida di Yassin furono prese iniziative in tutti e tre i settori e le prime cellule cui furono affidati compiti militari si concretizzarono non più tardi del 1987. Il periodo compreso tra il 1984 ed il 1987 ha rappresentato un cambiamento radicale nell’ideologia dei Fratelli Musulmani, che diretti da Yassin fecero propria l’idea della resistenza armata.
I Fratelli Musulmani avevano resistito alle prime pressioni interne che spingevano per la resistenza armata, si erano dissociati dai loro appartenenti che avevano fondato Fatah, ed avevano persino ignorato la seconda scissione (quella della Jihad Islamica); tuttavia l’impatto dell’occupazione militare israeliana sulla vita dei palestinesi, che avrebbe infine condotto alla prima Intifada o insurrezione, finì per portare alla nascita di Hamas. La trasformazione era ormai completa e Hamas, un’organizzazione separata rispetto ai Fratelli Musulmani, venne fondata nel 1987.
Nei primi tempi Hamas intese la propria risposta militare alla crescente sfida imposta dalla dura occupazione militare israeliana come una guerriglia di resistenza impostata secondo linee classiche del genere. L’ala militare di Hamas, tra il 1987 ed il 1992, non fece ricorso a bombardamenti suicidi e si concentrò sulla resistenza passiva e sugli scontri di piazza, oltre che sugli attacchi diretti contro le forze d’occupazione.
In tutto il corso dell’Intifada fu seguita una politica a doppio binario, basata sul confronto e sulla costruzione di Hamas come organizzazione di nuovo tipo. Il ricorso ad un braccio armato più organizzato caratterizzò la seconda Intifada, dopo il 2000, e fu in larga parte limitato ad essa. Dal febbraio del 1994 Hamas si è astenuta da attacchi che potessero apparire casuali o esplicitamente diretti contro i civili, e nel 2003 negli incontri del Cairo si è offerta di attenersi a questa linea e di togliere i civili dalla scena del conflitto. Il Primo Ministro Sharon, ad ogni modo, non accettò.
Dal 2003 Hamas ha in larga parte abbandonato gli attacchi suicidi e si è concentrata sulla creazione di una struttura militare disciplinata e ben addestrata, somigliante a quella di Hezbollah, nella striscia di Gaza.
E’ idea comunemente accettata in Occidente che gli accordi di Oslo firmati nel 1993 da Yasser Arafat e dal Primo Ministro Rabin abbiano avviato i palestinesi su una strada senza intoppi verso il riconoscimento del proprio stato. In Occidente si pensa anche che tra i palestinesi esistesse un forte e consensuale sostegno nei confronti del processo che portò agli accordi di Oslo. Tutto questo, semplicemente, non è vero.
I negoziati di Arafat ad Oslo divisero in modo molto profondo i palestinesi perché erano stati portati a termine in segreto, nel quadro di un’operazione ingannevole in cui si conducevano alla luce del sole ed in maniera formale dei negoziati fittizi intanto che i negoziatori di Arafat conducevano in segreto le trattative vere e proprie. Gli altri movimenti palestinesi ne furono tenuti completamente all’oscuro. Molti componenti del suo stesso Comitato Centrale di Fatah disapprovarono l’esito dei negoziati, ed Arafat ebbe serie difficoltà ad acquistare il consenso della base e ad ottenere la legittimità che gli serviva. Hamas si oppose con fermezza agli accordi di Oslo ed ebbe un incontro con Arafat a Tunisi nel corso del quale denunciò apertamente l’iniziativa. Tra le altre cose gli accordi di Oslo conferivano a Fatah il monopolio del potere politico e dell’utilizzo della forza; in cambio di tutto questo Arafat si impegnava a smantellare le organizzazioni dei suoi avversari politici e a sopprimere la resistenza.
All’epoca Hamas era maggiormente rappresentativo dell’opinione dei palestinesi: il fatto compiuto di Oslo venne accolto in modo ambiguo fin dall’inizio, e non ci volle troppo tempo prima che il processo di Oslo cominciasse ad essere considerato come un qualcosa che aveva ulteriormente indebolito le posizioni palestinesi. I termini in cui l’accordo era stato stretto vennero per lo più considerati come del tutto sbilanciati a favore di Israele.
Hamas, i profughi palestinesi in Libano, in Siria ed in Giordania e la maggior parte dei leader dei territori occupati, nonché molti intellettuali palestinesi, si pronunciarono contro gli accordi di Oslo fin dall’inizio. E’ probabile che lo stesso Arafat abbia capito, meno di sei mesi dopo la firma degli accordi ed in ogni all’epoca del suo incontro con gli israeliani al Cairo verso la fine del 1993, che era probabile che gli accordi fossero destinati al fallimento.  Nel febbraio 1994 il colono israeliano Baruch Goldstein massacrò ventinove palestinesi che pregavano nella moschea di Hebron nella West Bank: un evento comunemente considerato come la pietra tombale sul processo politico cominciato ad Oslo. Il massacro segnò anche l’inizio degli attacchi suicidi.
Già da molto tempo prima del massacro di Hebron un forte senso di disapprovazione verso la firma degli accordi di Oslo da parte di Arafat si era diffuso in tutti i settori della società palestinese, in particolare dopo che la popolazione palestinese era divenuta vittima di continui attacchi israeliani nel periodo immediatamente successivo agli accordi, quando Israele iniziò ad approfittare del successo politico conseguito per imporre misure di sicurezza vieppiù rigide nei territori occupati.
In definitiva, divenne chiaro che il Primo Ministro Rabin, intuendo la vulnerabilità di Arafat davanti alla sua pubblica opinione, aveva ordinato un’operazione di pubblica sicurezza con l’obiettivo di stroncare gli oppositori di Arafat. Col proseguire delle aggressive operazioni militari israeliane, intanto che i palestinesi non percepivano alcun tangibile beneficio economico dagli accordi di Oslo, anche l’atmosfera per le strade palestinesi verso la fine del 1993 si accese delle voci di quanti in Fatah avevano respinto l’accordo e di quelle di Hamas.
Abbiamo riferito tutto questo per porre Hamas, inteso come movimento di resistenza, in un contesto diverso rispetto a quello in cui esso viene solitamente collocato in Occidente. In primo luogo, la mentalità acquisita nei Fratelli Musulmani era di un tipo estremamente riluttante all’abbracciare la resistenza armata. Hamas non aveva ereditato per via diretta nessuna ideologia fondata sull’azione militare, anche se tutti gli appartenenti avevano letto le opere di Sayyid Qutb. E’ stata l’aggressiva occupazione militare che ha spinto la resistenza a prendere forma; essa ha rappresentato nella sua essenza una risposta diretta ai sentimenti ed all’umore della popolazione più che una vera e propria scelta ideologica. L’ideologia è arrivata dopo. In conclusione, la convinzione che Hamas rappresenti qualcosa che danneggia le aspirazioni alla pace della maggior parte dei palestinesi non era, e non è, altro che un mito. La realtà, invece, è quella di un longo e radicato conflitto di punti di vista che divide Hamas e Fatah su quali fossero e quali siano le tattiche che più probabilmente permetteranno di arrivare ad un’autentica ed equa pacificazione.


“Quello contro cui essi combattono… è il tuo senso di umanità”

A sostenere la resistenza palestinese, in conclusione, sono le risposte emotive e psicologiche al nazionalismo sionista.
Mesha’al afferma:
Mi piacerebbe innanzitutto spiegare il modo di pensare e di intendere le cose della gente di qui, perché lo stereotipo distorto dei palestinesi, o dei musulmani, o di Hamas, che vi viene ammannito in Occidente vi impedisce di vedere le cose come stanno. Qui ci sono due stati d’animo che vanno sempre insieme: possono sembrare in contraddizione tra di loro, ma in realtà sono complementari e sono anche molto umani. Uno è un sentimento di compassione e di amore per chi non si comporta in modo ostile o aggressivo nei nostri confronti, per tutti quanti, compresi i poveri e coloro che sono di un’altra religione o di un’altra razza. L’altro è un sentimento di forza e di fermezza, di coraggio e di pronta reazione contro coloro che ci aggrediscono. Questo fa parte dell’insieme di cose che possiamo definire umane: una persona normale si comporta in modo fermo a fronte di quanti le sono ostili, ed in modo condiscendente nei confronti di coloro che vivono in pace con lei.
E’ a questo punto che entra in gioco il concetto di lotta, di jihad, di resistenza. Non si tratta di un atteggiamento col quale ci rivolgiamo a tutti indistintamente: lotta, jihad e resistenza le riserviamo al nemico che ruba la nostra terra e distrugge le nostre case, compie azioni sacrileghe contro i nostri luoghi sacri, aggredisce donne e bambini ed uccide le persone. Quello di lottare e di resistere a costoro è un nostro normale, naturale diritto. Tutte le leggi divine ed il diritto internazionale ce lo riconoscono. Il jihad è dunque risposta ad un’aggressione: non è il jihad che aggredisce per primo.
A volte nella cultura islamica il termine jihad viene usato per indicare ogni azione che ha l’obiettivo di perseguire il bene, di resistere al male, di resistere ai cattivi desideri, di resistere alle invasioni nemiche. Il jihad non dovrebbe essere diretto contro le popolazioni pacifiche; una cosa del genere l’Islam non la permette. L’Islam non consente l’uso della forza per risolvere le questioni politiche all’interno della società o tra società diverse, ma se qualcuno usa la forza contro di te, allora tu usi la forza per resistergli. Sulla questione non esistono ambiguità13.
Gli effetti della perdita della libertà sull’essere umano, per avvenuta occupazione militare o per arresto che sia, sono ben conosciuti: può distorcere la personalità ed in ultima analisi condurre al crollo. Quello di minare profondamente il senso di identità è uno dei principali strumenti a disposizione di chi conduce un interrogatorio, per indebolire nel prigioniero la personalità e la sicurezza di sé. Lo si fa ridendo delle sue idee e dei suoi valori, suggerendo che si tratti di roba infantile ed irrealistica, arguendo che i suoi eroi ed i suoi capi sono dei perdenti, che coloro in cui confida o per i quali prova ammirazione stanno in realtà collaborando con chi lo interroga, che i suoi compagni lo hanno abbandonato, e che lui si trova da solo, con la sua assurda identità priva di significato, oggetto di scherno per tutto il resto del mondo.
Un palestinese in un carcere israeliano ha scritto sugli scambi di battute che puntano a delegittimare l’individuo e a ridurre la sua fiducia in se stesso. Lo spirito umano può accedere anche ad altre risorse e può anche succedere che la volontà ed la propensione all’azione che sono alla base dell’esistenza fisica e del senso di identità ne escano rafforzate.
…Ed è contro questa cosa essenziale che loro tentano di combattere in carcere, nel corso delle ore, dei giorni e degli anni. Non contro di te come individuo politicamente sovversivo, non contro di te come individuo religioso o come consumatore cui sono negati, grazie a loro, i piaceri materiali della vita. Puoi far tuo qualunque punto di vista politico desideri, puoi praticare i tuoi riti religiosi, puoi anche avere svariate cose. Il sistema penitenziario ha l’obiettivo di indebolirti come persona, di indebolire ogni relazione che hai con gli altri o con il mondo, ed anche di indebolire la relazione che hai con il carceriere in quanto essere umano. Faranno di tutto perché tu arrivi ad odiarli. Quello contro cui essi combattono… è il tuo senso di umanità14.
Un altro detenuto ha sottolineato l’importanza che una cultura condivisa tra i prigionieri ha come strumento per la salvaguardia della propria identità e della propria volontà:
Sappiamo del direttore del carcere e dei suoi piani per degradarci, per calpestare la nostra dignità e per privarci del nostro senso di umanità. L’amministrazione penitenziaria vuole che ciascuno di noi pensi solo a se stesso… non vogliono che ci organizziamo… il loro obiettivo è quello di stroncare il prigioniero e la sua tenacia… per svuotare ogni detenuto di ciò che lo rende uomo e del suo senso di umanità15.
La possibilità di piegarsi in se stessi per toccare le risorse più nascoste della propria capacità personale di risolvere i problemi, il cui tornare alla luce si rivela un’esperienza marcatamente liberatrice era evidente anche a Michel Foucault, nella descrizione che fece della sua esperienza per le strade durante le sollevazioni in Iran.
Quello cui l’Islam ha fatto appello non era la rabbia della gente, ma piuttosto una specie di vitalità rimasta a lungo immobile. Quello che motivava il singolo individuo rivoluzionario a fronteggiare le forze armate dello Shah non era un impegno politico di qualche genere, ma la vitalità che c’era in ciascuno di loro, arrivata al punto di rifiutare ulteriori compromessi con la costrizione e con la violenza16.
Umiliazione, deprivazione e forza bruta servono a completare il processo di distruzione dell’identità. E quello che è prassi corrente nei confronti del singolo individuo è vero anche per quello che riguarda l’intero popolo. Il colonialismo, come Fanon ha specificato, ha le stesse priorità e le estende su larga scala. Il merito di Fanon è di essere riuscito a identificare l’impatto psicologico su un popolo colonizzato:
Lo sfruttamento, le torture, le incursioni, il razzismo, le uccisioni di massa… fanno dei nativi degli oggetti nelle mani della nazione occupante. Questo uomo oggetto, privo di mezzi di sussistenza, senza ragione di esistere, è spezzato nell’intimo della sua essenza. Il desiderio di vivere e di continuare diventa sempre più evanescente, sempre più fantomatico. E’ a questo punto che compare il ben noto complesso di colpa17.
Fanon descrive una colpa che ogni palestinese comprende, la colpa di vergognarsi per non riuscire a fare di più per aiutare un compagno, palestinese anche lui, che viene vessato ad un posto di blocco, che si vergogna per l’atteggiamento servile che un suo genitore mostra nei confronti dell’occupante e di quanto sia inevitabile il fatto di essere stigmatizzato come colpevole dalle autorità, come se fosse una specie di maledizione. “Egli è fatto per sentirsi inferiore, in nessun modo è convinto della sua inferiorità”18.
L’origine della resistenza si trova, secondo Fanon, in questo senso di colpa ed in questo senso di inferiorità che coloro che vengono definiti “indietro” e “culturalmente primitivi” sono costretti ad addossarsi a causa della loro impossibilità a combattere un sistema soverchiante. Si tratta però di un’inferiorità che non viene mai interiorizzata, tranne che da una minoranza che, secondo Fanon, sceglie di cercare di diventare “bianca” e di schierarsi per la collaborazione con la cultura dominante. Quelli che invece vengono boicottati dalla “civilizzazione”, quelli che vengono demonizzati perché considerati privi di ogni valore e di conseguenza di ogni identità possono liberarsi da soli, tramite la resistenza armata. La resistenza armata, arrivava a concludere Fanon, era l’antidoto psicologico ad una condivisa esperienza di erosione della personalità.
Un detenuto palestinese sui vent’anni descriveva in prigionia con esattezza la testi di Fanon.
Vero è che non mi sono mai dato da fare pensando che sarei diventato un combattente per la libertà, un militante di una formazione o di un partito, o anche soltanto che la politica mi avrebbe coinvolto. Non perché queste non siano tutte cose giuste o perché le cose della politica siano proibite o facciano schifo come pensa certa gente, ma perché per me si trattava di cose enormi e complicate. Non sono diventato un combattente o un politico perché ho avuto l’intenzione di diventarlo.
Avrei potuto continuare a fare l’imbianchino o il benzinaio, che era quello che stavo facendo fin quando non mi hanno arrestato. Avei potuto sposarmi da giovane con una che mi avrebbe fatto sette o dieci figli, avrei potuto comprarmi un camion e impratichirmi di commercio di auto e di tassi di cambio. Erano tutte cose possibili. Ma ho visto gli orrori della guerra in Libano [la prima guerra, quella del 1982] e i massacri di Sabra e Shatila19; cose che mi hanno sconvolto.
Poi continua:
…per smettere di sentirmi addosso lo shock ed il trauma, per smettere di percepire la tristezza degli esseri umani, di ogni essere umano. La mancanza di sensibilità davanti agli orrori, ad ogni orrore, per me è come un incubo. Questa è la misura della mia volontà e del mio rifiuto di arrendermi. Avvertire empatia per le persone, essere capaci di percepire il dolore della condizione umana. Questa è l’essenza della civiltà. E la volontà rappresenta l’essenza della persona razionale. L’azione è il suo senso fisico, le emozioni sono la sua essenza spirituale20.
La resistenza viene vista da questi prigionieri come l’opportunità per imporre un cambiamento alla loro esistenza, per scegliere la lotta come nuovo modo di vivere. Tuttavia, come spiegano bene le descrizioni dei prigionieri, non è solo il caso di individui che fanno la scelta di adoperarsi per la resistenza. Si tratta invece, come Foucault riferisce spesso considerando la cosa un tratto fondamentale dell’Iran rivoluzionario, della vita in sé, della qualità essenziale dei vivi, che emerge con forza nelle descrizioni di questi prigionieri palestinesi. Non sono uniti da un programma politico o da una ideologia, ma da una volontà comune. Ad un dato momento, un uomo o una donna preferiranno correre il rischio di morire, piuttosto che dover affrontare la certezza del doversi sottomettere.
“I palestinesi capiscono che la loro vita è fatta di lotta e di resistenza. Quando vivi tutti i giorni sotto occupazione militare, il tuo comportamento normale [cambia]: la gente in Occidente, questo, dovrebbe capirlo” afferma Mesha’al.
Ogni giorno sopportiamo aggressioni, omicidi e stato d’assedio, con le case distrutte e le famiglie per la strada. Abbiamo undicimilaseicento persone detenute nelle carceri israeliane; alcuni sono bambini, altri sono donne, ci sono degli anziani, ed un migliaio di loro sono ammalati. Quando uno si ritrova con la vita distrutta e vede che il mondo non lo può aiutare, che l’ONU non può farci niente e che non esiste alcuna volontà a livello internazionale per costringere gli israeliani a lasciare la nostra terra così come Saddam Hussein fu costretto a lasciare il Kuwait, se le cose stanno così resistere diventa un obbligo, se vuoi vivere con un po’ di dignità.
Se non resisti, non ti comporti in maniera normale. E’ come quando si è a casa tranquilli e ad un certo punto scoppia un incendio. La reazione normale è quella di prendere dell’acqua e gettarla sul fuoco. Se vivi in un paese sotto occupazione, è normale prendere le armi e resistere.
E resistere, per una persona dignitosa, diventa una questione di orgoglio. Sei fiero di star compiendo il tuo dovere, proprio come qualcuno che estingue un incendio, o come quando qualcuno aiuta una persona che rischia di annegare; è un dovere, ma ci si sente fieri di averlo assolto. Sicché i palestinesi sono orgogliosi della loro lotta, anche se lottare è qualcosa che gli viene imposto Questo è ciò che essere uomini significa; questo è ciò che vuol dire fare la cosa giusta.
Noi amiamo la vita, come tutti; ma amiamo la vita dignitosa. Non ci piace vivere umiliati ed oppressi. Forse esistono persone che non si curano di come vivono; vogliono solo vivere, anche se devono vivere in mezzo alle umiliazioni. I popoli di questa regione, gli arabi in generale e i musulmani, non vogliono vivere in questo modo.
Così, se diciamo come palestinesi, come arabi, come musulmani che per liberare il nostro popolo dall’ingiustizia e dall’occupazione siamo pronti a morire, lo diciamo non perché odiamo la vita, no, ma perché vogliamo morire perché il resto della nostra gente possa vivere libera e degna. Alcune persone devono sacrificarsi perché tutte le altre possano vivere. Abbiamo una responsabilità, ecco. Non è che odiamo la vita o che siamo mossi dal desiderio di morte21.
Quello dell’azione armata è solo uno degli elementi della resistenza di Hamas. Resistenza islamica significa anche rifiuto: il rifiuto di assecondare chi cerchi di autoattribuirsi un’identità superiore, o chi accampi diritti superiori rispetto a quelli di tutti gli altri esseri umani. Il rifiuto di acconsentire a che la complessità del passato venga stravolta da archeologi che cercano di privilegiare un dato strato a scapito di tutti gli altri. Il rifiuto di acconsentire a che una sola narrativa storica, e valga come esempio la risposta del Primo Ministro israeliano Golda Meir che affermò “Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno cui restituirli”22 resti priva di contraddittorio.
Un detenuto palestinese adolescente, nel corso di un’intervista tenuta nell’ala per minori di un carcere israeliano, si è descritto così:
Devi sapere che tutti i miei valori e tutte le mie istanze etiche sono basate sulle credenze islamiche. Rifiuto qualsiasi credenza che contraddica i valori islamici. Quindi, ecco come descrivo me stesso e quello che faccio: io sono una persona che si rifiuta di vivere senza dignità o di vedere i suoi fratelli uccisi senza muovere un dito per loro. Io rifiuto la profanazione dei nostri luoghi sacri, rifiuto che vengano distrutti o bombardati. Rifiuto la demolizione delle case della gente. Rifiuto di rimanere con le mani in mano. Noi siamo moralmente integri e siamo coraggiosi. Sono qualità normali per delle persone normali. Io non penso che sia eccezionale essere così. Tutti dovrebbero avere queste, che sono qualità normali.


Il rifiuto del riconoscimento

Il rifiuto di considerare ammissibili dei diritti speciali o l’esistenza di una gerarchia di identità più o meno prestigiose viene filtrato attraverso il prisma dell’eurocentrismo, quando gli occidentali posano lo sguardo su un movimento come Hamas: il rifiuto di riconoscere Israele viene percepito non come un atto di resistenza, ma come attestazione di fondamentalismo incoercibile, come un ulteriore segnale della forte presa istintiva di religione e cultura che farebbero di Hamas qualcosa di incapace di abbracciare il cambiamento.
“Israele esiste al di là di ogni dubbio o questione; negarlo significa dare prova di ostinata persistenza nell’errore… tutto quello che devono fare è pronunciare queste tre parole: Noi riconosciamo Israele.”; durante una riunione redazionale presso Ha’aretz, il quotidiano israeliano, queste parole sono state più volte insistentemente evidenziate nel corso di una discussione con l’autore, intanto che i presenti scrollavano la testa non riuscendo a credere all’inconcepibile rifiuto di Hamas di pronunciare quelle tre parole.
Hamas non sta semplicemente rifiutando “di pronunciare tre parole”. Hamas sta rifiutando un’identità escludente ebraico-israeliana che non ha mai riconosciuto i diritti dei palestinesi e che non ha mai accettato la libertà di diritti tra il popolo ebraico e quello palestinese.
Khaled Mesha’al, il capo politico di Hamas, parla della resistenza come di un tentativo di arrivare ad una sorta di equilibrio. Ha spiegato con chiarezza che l’obiettivo della resistenza è quello di causare un mutamento psicologico nell’occupante, piuttosto che quello di infliggergli una sconfitta militare in termini di tattica militare convenzionale.
Il problema è che loro credono di poter infierire sulla parte più debole. Questo atteggiamento non porterà certo alla pace. Pochi anni fa, nel 2003, eravamo disponibili a mostrare una certa elasticità. Abbiamo presentato una nuova iniziativa, la tregua, o hudna, del 2003; Israele non ha risposto positivamente. Non andò a finire bene.
Israele, a tutto’oggi, non avverte alcuna necessità di pagare un prezzo… Vuole imporre le sue precondizioni, prima tra le quali il “buon comportamento” dei palestinesi; arroga per sé il diritto di giudicare questo “buon comportamento” e pensa che tutto questo sia abbastanza. Non ha mai mostrato la volontà di fare in proprio qualche gesto. Questo modo sbilanciato di affrontare il problema è destinato a fallire: si deve capire che Hamas è un negoziatore tenace, ma che a differenza di altri mantiene gli impegni presi23.
In un’intervista successiva:
Essi non vogliono né una pace basata sulla giustizia né una pace basata sul compromesso. Vogliono tenersi la terra, vogliono condizioni di sicurezza per loro soltanto e vogliono essere i padroni di tutta la regione, senza riconoscere i diritti dei palestinesi. Yasser Arafat e Mahmoud Abbas hanno tentato di arrivare ad un compromesso. Sono forse riusciti a raggiungere la pace con gli israeliani? Il vero ostacolo alla pace nella regione è rappresentato da Israele, oltre che dalla parzialità degli americani24.
Hamas segna a dito, e lo fa in maniera plateale, il più grosso punto fallimentare del processo politico in corso tra israeliani e palestinesi dai tempi della firma degli Accordi di Oslo, nel 1993: la singolare mancanza di qualsiasi chiara esplicitazione dei diritti dei palestinesi.
Quello che i leader di Hamas considerano assodato è che mentre l’Occidente rende ricorrente omaggio alla narrativa ebraica dell’ingiustizia, non sente lo stesso bisogno di riconoscere o di rendere omaggio alla narrativa palestinese dell’ingiustizia che i palestinesi soffrono per gli eventi del 1948, quando paesi e case vennero distrutti, molte persone vennero uccise e migliaia fuggirono nei campi profughi al di fuori delle frontiere della Palestina.
Hamas rifiuta di riconoscere Israele e continua a resistere perché vuole che la narrativa palestinese venga accettata. Perché per prima cosa venga accettata senza equivoci, e perché in secondo luogo questa accettazione prenda la forma di un’affermazione del diritto dei palestinesi ad avere un loro stato sulla base del ritiro israeliano da tutti i territori palestinesi conquistati nel 1967.
Per Hamas la pressante richiesta internazionale di un loro primo riconoscimento dei diritti di Israele prima ed ancora che si inizi a discutere di diritti dei palestinesi suona come la richiesta di approvare il diritto ad una superiore potestà ebraica sulla loro terra e di declassare al tempo stesso i loro diritti ad una questione subordinata all’assicurare il riconoscimento palestinese dello Stato di Israele.
Hamas ha dovuto specificare che le insistenze americane sul riconoscimento di Israele non hanno mai costituito una condizione per nessun precedente tentativo di dialogo25. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno mantenuto relazioni con il presidente Abdul Nasser, col presidente Hafez al Assad, con re Fahd Ibn Abdul Aziz e con re Hussein, all’epoca in cui Egitto, Siria, Arabia Saudita, Giordania ed Iran non soltanto rifiutavano di dialogare con i leader israeliani, ma si ripromettevano la distruzione di Israele.
Il rifiuto di Hamas non è dunque, come spesso lo si bolla, frutto dell’azione di un elemento di disturbo, cui una mentalità errata che gli impedisce di pronunciare le tre parole è altrimenti priva di spiegazioni. L’ostinata resistenza è intesa come qualche cosa che serve a cambiare i termini della questione, passando dal diritto ad occupare la terra altrui che una delle due parti si auto assegna, ad una negoziazione il cui punto di partenza è dato dal fatto che entrambe le parti hanno dei diritti e che entrambe le parti hanno sofferto delle ingiustizie. Una soluzione può derivare soltanto da questo più equilibrato punto di partenza.
I capi di Hamas pensano che il riconoscimento dei diritti dei palestinesi possa facilitare un processo politico piuttosto che intralciarlo. In altre parole, la resistenza non ha il fine di rifiutare il dialogo; è invece uno strumento che di esso dialogo vuole cambiare i parametri ed introdurre una sincera modificazione dei valori in gioco e rendere possibile una vera discussione tra le parti. Quando Khaled Mesha’al ha detto che la resistenza facilita il raggiungimento di una soluzione perché aiuta a creare un equilibrio, ha descritto in questo modo il cambiamento di paradigma:
Noi di Hamas, come la maggior parte dei gruppi palestinesi, abbiamo accettato l’idea di uno stato con le frontiere del 4 giugno 196726. Abbiamo detto comunque che non riconosceremo Israele. Perché? Perché il popolo palestinese è convinto che la terra che Israele occupa sia la loro terra. Così, se possono accettare uno stato compreso nei confini del 1967, non vogliono legittimare coloro che hanno occupato le loro terre sessanta o settant’anni fa. Così, la formula è semplicemente questa: se attraverso i mezzi della politica possiamo arrivare ad accordarci per uno stato palestinese compreso nei confini del 1967, perché dovremmo farci forzare a rinunciare a quello che crediamo e che sentiamo, riconoscendo lo stato di Israele?27
Per Hamas la resistenza è sia l’espressione di emozioni umane profondamente radicate sia espressione di principi di giustizia islamici. A livello umano, la resistenza offre a coloro che hanno avuto le loro terre occupate un percorso verso il rispetto e la stima di sé, cui si può arrivare divenendo quelli che Fanon chiamava “soggetti attivi”; essere soggetti attivi significa opporsi all’ordine costituito, saper dire di no, rifiutare di sottomettersi o di adattarsi alle pressioni esercitate in direzione della condiscendenza.
Per quanto riguarda le questioni di giustizia, gli islamici considerano i valori umani coinvolti in esse al di sopra di qualunque politica. Hamas quindi considera il raggiungimento di una soluzione nei rapporti con Israele in maniera diversa da come la considera Fatah. In Hamas non si condivide l’ottimistica concezione di Fatah secondo cui la debolezza palestinese rispetto alla forza di Israele può essere controbilanciata facendo in modo che la comunità internazionale si schieri a fianco dei palestinesi.
Hamas ritiene che soltanto affermando i giusti principi, insistendo sul significato e sulle implicazioni di concetti come libertà, giustizia e benessere, -che secondo Hamas hanno poca consistenza reale e poco valore morale nell’utilizzo corrente che gli occidentali sono soliti farne- può avere luogo un dialogo vero e proprio. Se vogliamo afferrare questi concetti ed attribuire loro un vero significato, ci si deve rivolgere ad essi adottando un punto di partenza improntato al rispetto. Il rispetto ha un’importanza fondamentale per il conseguimento di qualsiasi risultato successivo, e se non può arrivare da altre parti, questo rispetto deve per forza provenire dalla resistenza.
Insomma, Hamas pensa che un negoziato centrato su questioni etiche come quella dei diritti e della giustizia per i palestinesi non possa essere concluso con successo con dei negoziatori israeliani che considerano forza e potenza come fattori dominanti. Pace e giustizia diventano assiomatiche solo per chi le identifica come valori ultimi e definitivi. Fin quando non si partirà da questi concetti nessun dialogo potrà avere successo, afferma Hamas.


Resistenza, dignità e diritti.

Un giovane detenuto palestinese ha espresso in un’intervista questi pensieri:
Quello che Israele fa contro di noi, le invasioni, i bagni di sangue, le uccisioni, le devastazioni quotidiane, perfino le trasmissioni televisive – tutte queste cose ti amareggiano e ti induriscono il cuore, che si svuota di qualsiasi sentimento nei confronti degli altri. Tutto quello che riesci a pensare è a come sfogare contro il nemico la forza che ti deriva dalla rabbia. Vedere il sangue tutti i giorni ti fa sentire al posto del fratello o dell’amico che sono morti o che hanno sofferto il martirio, e la cosa moltiplica la tua rabbia. Tutti si sentono così, io lo so. Anche gli psicologi lo dicono; così io devo distruggere il più possibile, non importa se sono civili o militari; ogni ebreo in Palestina è un militare, a parte i bambini.
In carcere mi è diventato più chiaro il fatto che è possibile coesistere con gli ebrei; ma non dobbiamo dimenticare che la nostra causa non può essere ridotta ad un mero problema di coesistenza… il suo principio fondamentale è la liberazione della nostra patria. Noi dobbiamo avere la nostra parte di libertà. Quando un palestinese uccide un israeliano, il suo scopo non è quello dell’ucciderlo di per sé. Uccidere tanto per fare è illecito secondo l’Islam… se ci toglie la nostra libertà, tentiamo di infliggere al nostro nemico le maggiori perdite possibili. Il nostro obiettivo, questo il mondo lo deve sapere, non è l’uccidere di per sé, ma la nostra libertà28.
Mesha’al nota:
Dal punto di vista dell’efficacia, ogni azione al mondo ha risvolti positivi e risvolti negativi. Sappiamo che queste operazioni [gli attacchi suicidi] hanno un impatto negativo, specialmente sull’opinione pubblica mondiale; ma quale messaggio fanno passare operazioni come queste? Il più importante è che il popolo palestinese non si arrenderà mai. Se non trovano armi, i palestinesi combatteranno con il loro corpo. E questo, vi assicuro, è quello che abbrevierà la durata del conflitto: costringerà Israele a riconoscere i diritti dei palestinesi. [Posso immaginare un giorno in cui musulmani, ebrei e cristiani vivranno insieme in armonia…] …come è successo in passato, e come potrà succedere di nuovo in futuro.
Mesha’al continua dicendo che “Ciò che conta è che l’occupazione ed i comportamenti aggressivi finiscano, e con essi cessino di essere portate avanti le ambizioni sulla cui base fu fondato il movimento sionista”29.
Il leader politico di Hamas ha anche sottolineato che non esistono problemi nei confronti degli ebrei, intesi sia come individui che come gruppo sociale. “La questione non è questa: il conflitto nasce da un comportamento preciso, nasce dall’aggressività dei sionisti che per noi è inaccettabile. Si tratta comunque di una questione politica tra noi e loro, non di una questione teologica”30.
Mesha’al continua spiegando che esistono sicuramente differenze teologiche tra ebrei e musulmani e che queste differenze continueranno ad esserci: ma il loro persistere non è certo tale da impedire che tra i due popoli nascano buone relazioni. “Mio padre ha preso parte alla resistenza contro il Mandato Britannico negli anni Trenta, quando gli inglesi ci hanno occupato. Adesso se ne sono andati. Certo, risentimenti che vengono da quell’epoca ancora persistono in me, ma la loro occupazione è finita; esistono ancora differenze tra noi e loro, ma non siamo certo in guerra”31.
In questo capitolo ed in quello che lo ha preceduto abbiamo suggerito che il concetto di resistenza sia centrale. Nel sesto capitolo abbiamo mostrato come il concetto di resistenza sia fondamentale per restituire alla cultura la sua dimensione politica e per spostare l’accento dalla cultura individuale a quella condivisa. Abbiamo anche sostenuto che ai compiti di tipo militare e politico che l’azione di resistere impone è possibile far fronte sviluppando una mente indipendente; i resistenti devono essere riequipaggiati delle competenze necessarie al processo critico del ragionamento indipendente.
L’importanza del pensiero nella tradizione sciita e l’importanza che viene attribuita allo sviluppo di competenze in materia lascia aperta la questione se il significato che in Occidente si attribuisce alla fede religiosa si adatti o meno all’Islam sciita. Gli sciiti non considerano che quella del cristianesimo di derivazione abramitica sia una fede vera e propria, perché essa contempla il concetto di obbedienza acritica. Per gli sciiti la fede è invece la conoscenza dell’esistente che deriva dalla ragione e dall’intuizione.
In Occidente si presume, tradizionalmente, che esista una tensione a separare la religiosità dalla ragione; nell’esperienza sciita questo non si verifica. Per dirla con le parole di un leader islamico, il movimento non considera l’Islam nel modo in cui lo considerano gli europei, ovvero come una religione medievale: “Noi non concepiamo un dio che permette o proibisce ciascuna azione e tutte le azioni. Noi consideriamo l’Islam come qualcosa che stabilisce dei principi chiari, che servono da guida per il nostro agire”.
In questo capitolo ci siamo concentrati su Hamas e sul suo collocare la spinta verso la resistenza tra i valori umani più profondi. Abbiamo anche considerato che l’Islam riconosce questi valori come essenziali. Il rispetto dell’uomo, della sua dignità e della sua vita sono tutti aspetti dell’Islam che non vengono considerati come mezzi per perseguire un fine. Hamas non definisce la resistenza come il mezzo pragmatico per giungere alla conquista del potere. Hamas definisce la resistenza all’interno di una visione islamica universale che antepone determinati valori alla politica. Questa è la differenza tra Hamas e Fatah; Hamas costruisce la propria resistenza insistendo sul fatto che Israele deve riconoscere questi principi come punto di partenza per i negoziati e non considera la resistenza stessa soltanto come un esercizio di pressione di quelli che prendono in considerazione mezzi e fini. Non è il punto di vista universale occidentale; è un punto di vista che afferma che non esistono basi per discutere con coloro che non capiscono argomentazioni basate su questi principi, con coloro che credono soltanto alla forza e alla potenza.
Nella prossima parte del volume esporremo la natura della resistenza islamica e ci chiederemo se le si adatti la definizione di “violenza divina”. Prenderemo anche in considerazione le caratteristiche delle reazioni occidentali alla violenza islamica e cercheremo una spiegazione ad esse nel pensiero su cui poggia il modernismo laico. Infine, considereremo i legami tra violenza islamica e reazione occidentale, e cercheremo di tracciare qualche parallelo partendo dalla vita del profeta Muhammad dopo la sua migrazione a Medina nel 622.

1 Edward Said, Freud and the Non-European, London: Verso, 2003, pp. 44 –45.
2 Ibid., p. 46.
3 Nadia Abu el-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-fashioning in Israeli Society, Chicago: University of Chicago Press, 2002.
4 Ibid., p. 74.
5 Herman Melville, White Jacket or The World in a Man-of-War, Oxford: Oxford University Press, 1924 (prima ed. 1850),p. 142.
6 Benedict Anderson, Imagined Communities, London: Verso, 1983, pp. 13–14.
7 Ibid., p. 14.
8 Adalah, ‘The Democratic Constitution’, URL (consultato a novembre 2008):  http://www.adalah.org/eng/democratic_constitution-e.pdf
9 Marwan Dwairy, ‘A Word from the Chairman’, URL (consultato a novembre 2008): http://www.adalah.org/eng/bill_of_right_dwairy.php
10 Il capo dei servizi di sicurezza israeliani, citato in ‘Rights Groups: Shin Bet Probe of Arab Group Undermines Democracy’, Ha’aretz, 25 marzo 2005
11 Isaiah Berlin, The Crooked Timber of Humanity, Princeton, NJ: Princeton University Press, 1990, p. 246.
12 Khaled Mesha’al intervistato a Damasco da Hugh Spanner nel giugno 2008 per Third Way, trascrizione di tutta l’intervista allo URL (consultato nel novembre 2008): http://www.thirdwaymagazine.com/354
13 Ibid.
14 Detenuto anonimo.
15 Detenuto anonimo.
16A quoi rêve les Iraniens?’, Le Nouvel Observateur, 16–22 October 1978.
17 Frantz Fanon, Racism and Culture: Towards an African Revolution, London: Penguin Books, 1970, p. 35.
18 Frantz Fanon, The Wretched of the Earth, New York, Grove Weidenfeld, 1963, p. 16.
19 Sabra e Shatila erano due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut in cui le forze libanesi alleate con le truppe di occupazione di Ariel Sharon commisero un massacro.
20 Prigioniero anonimo.
21 Hugh Spanner, intervista con Khaled Mesha’al, maggio 2008.
22 Golda Meir, in risposta ad una domanda, citata in un notiziario dell’8 marzo 1969.  URL (consultato a novembre 2008): http://en.wikiquote.org/wiki/Golda_Meir
23 Khaled Mesha’al nel corso di un’intervista con l’autore, 2007.
24 Intervista con Hugh Spanner a Damasco, maggio 2008.
25 Una questione su cui il Comitato per lo sviluppo internazionale del parlamento britannico è tornato recentemente, affermando che mentre sono state esercitate forti pressioni su Hamas perché cambiasse politica ed accettasse le istanze del quartetto, nessuna iniziativa dello stesso genere è stata presa nei confronti del governo israeliano per indurlo a mettere in pratica gli accordi che pure aveva firmato, o a cessare I comportamenti, che sono chiari e definiti, susciettibili di causare povertà e sofferenza all’interno della striscia di Gaza. (Development Assistance and the Occupied Palestinian Territories, Fourth Report of Session 2006–07, 24 gennaio 2007, p. 28; URL [consultato a novembre 2008]: http://www.parliament.the-stationery-office.co.uk/pa/cm200607/cmselect/cmintdev/114/114i.pdf)
26 Ovvero quelli antecedenti alla conquista israeliana della striscia di Gaza e della West Bank, durante la guerra dei sei giorni.
27 Intervista con Hugh Spanner a Damasco, maggio 2008.
28 Prigioniero anonimo.
29 Intervista con Hugh Spanner a Damasco, maggio 2008.
30 Intervista di Khaled Mesha’al con l’autore, 2007.
31 Ibid.

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