mercoledì 13 marzo 2024

Alastair Crooke - Quando si è fuori dalla realtà. La Casa Bianca davanti al mutato atteggiamento dello stato sionista

 



Traduzione da Strategic Culture, 11 marzo 2024.

Alon Pinkas, un ex diplomatico sionista di alto livello e con saldi collegamenti a Washington, ci dice che una Casa Bianca esasperata ha finalmente detto di "averne abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: quel Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche di Biden per il Medio Oriente e gli Stati Uniti hanno finalmente interiorizzato questo dato di fatto.
Biden non può permettersi che le vicende dello stato sionista compromettano ancora di più la sua campagna elettorale e quindi -come ha chiarito il suo Discorso sullo Stato dell'Unione- raddoppierà la posta sulle sue mal congegnate linee politiche, sia per lo stato sionista che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito al gesto di sfida con cui Netanyahu ha risposto alle raccomandazioni politiche statunitensi, intoccabili come le cose sacre? Ha invitato a Washington Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra sionista, e lo ha impacchettato in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si ritiene possa o debba diventare premier". A quanto pare i funzionari hanno pensato che organizzando un colloquio al di fuori dei consueti protocolli diplomatici si sarebbe potuto "dare il via a una serie di avvenimenti che avrebbe potuto portare a nuove elezioni nello stato sionista", osserva Pinkas, dalle quali sarebbe potuta emergere una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
Chiaramente, l'idea era quella di un primo passo verso un cambio di governo realizzato tramite l'esercizio del cosiddetto soft power.
Il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto durante le primarie del Michigan, in cui il voto di protesta per Gaza ha superato i centomila voti del tipo a favore del partito, ma senza una indicazione di candidato. I sondaggi -soprattutto tra i giovani- lanciano l'allarme per novembre, per lo più proprio a causa di Gaza. I leader democratici iniziano a preoccuparsi.
L'importante commentatore sionista Nahum Barnea scrive che lo stato sionista sta "perdendo l'AmeriKKKa":
Siamo abituati a pensare agli Stati Uniti come a qualcosa di familiare... Riceviamo armi e sostegno internazionale, e gli ebrei danno il loro voto negli Stati chiave e forniscono denaro per le campagne elettorali. Solo che stavolta la situazione è diversa... Dal momento che i voti alle elezioni [presidenziali] vengono conteggiati a livello regionale, solo alcuni Stati... sono davvero decisivi. Come in Florida, [uno] Stato chiave, i voti degli ebrei possono decidere chi andrà alla Casa Bianca, anche i voti dei musulmani in Michigan possono essere decisivi... [Gli attivisti] hanno chiesto agli elettori delle primarie di votare senza indicare un candidato, per protestare contro il sostegno di Biden allo stato sionista... La loro campagna ha avuto un successo superiore alle aspettative: centotrentamila elettori democratici hanno risposto all'appello. Lo schiaffo dato a Biden è riecheggiato in lungo e in largo negli ambienti della politica istituzionale. Non solo ha attestato l'ascesa di una nuova, efficiente e tossica lobby politica, [ma] anche il senso di repulsione che molti statunitensi provano quando vedono le immagini che arrivano da Gaza.
"Biden ama lo stato sionista e teme veramente per la sua sorte", conclude Barnea, "ma non ha intenzione di perdere le elezioni per questo motivo. Questa è una minaccia esistenziale".
Il problema, tuttavia, è il contrario. È la politica degli Stati Uniti ad essere profondamente sbagliata e completamente incongruente con il sentimento della maggioranza dell'opinione pubblica dello stato sionista. Molti cittadini dello stato sionista sono convinti di stare combattendo una lotta per la sopravvivenza e non vogliono devono diventare "carne da macello" (per come la vedono loro) per le strategie elettorali dei democratici statunitensi.
La verità è che è lo stato sionista ad aver rotto con l'amministrazione Biden, non il contrario.
Il piano fondamentale di Biden, che si basa sulla rivitalizzazione dell'apparato di sicurezza palestinese, viene descritto come implausibile persino dallo Washington Post. Gli Stati Uniti hanno tentato di ripristinare il sistema di sicurezza dell'Autorità Nazionale Palestinese con il generale Zinni nel 2002 e poi con Dayton nel 2010. Le iniziative non hanno avuto successo, e per un buon motivo: le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese sono viste dalla maggior parte dei palestinesi come nient'altro che degli odiati tirapiedi che fanno rispettare l'occupazione sionista. Esse lavorano per l'interesse della sicurezza sionista, non di quella palestinese.
L'altro pilastro della politica statunitense è un ancor più improbabile, de-radicalizzata e anemica "soluzione dei due Stati", affogata dentro una sinfonia regionale di stati arabi di orientamento conservatore chiamata ad agire come supervisore della sicurezza. Questo approccio politico è un riflesso del fatto che la Casa Bianca non è in sintonia con la visione escatologica che ha oggi lo stato sionista. La Casa Bianca non riesce a superare una prospettiva politica che è retaggio di decenni ormai passati e che si era rivelata fallimentare già all'epoca. La Casa Bianca ha fatto quindi ricorso a un vecchio trucco: quello di proiettare tutti i propri fallimenti politici su un leader straniero colpevole di non aver fatto funzionare qualche cosa che funzionare non poteva, e cercare di sostituire quel leader con qualcuno più accondiscendente. Scrive Pinkas:
Una volta che gli Stati Uniti hanno appurato che Netanyahu non sarebbe stato collaborativo e non si sarebbe comportato da alleato sollecito ma anzi si sarebbe mostrato grossolanamente ingrato... e concentrato solo sulla sua sopravvivenza politica dopo la débacle del 7 ottobre, i tempi sono diventati maturi per tentare un nuovo corso politico.
Solo che la politica di Netanyahu -nel bene e nel male- è il riflesso di quello che pensa la maggioranza dei cittadini dello stato sionista. Netanyahu ha i suoi ben noti difetti di personalità ed è molto impopolare nello stato sionista, tuttavia questo non significa che un gran numero di persone non sia d'accordo con il suo programma e con quello del suo governo.
Insomma, ecco che arriva Gantz, sguinzagliato dall'amministrazione Biden come potenziale premier in pectore negli ambienti diplomatici di Washington e Londra.
Solo che la manovra non ha funzionato come previsto. Come scrive Ariel Kahana (in ebraico, su Israel Hayom del 6 marzo):
Gantz ha incontrato tutti i più alti funzionari governativi ad eccezione del presidente Biden, e ha presentato posizioni identiche a quelle che Netanyahu ha presentato durante i colloqui che ha avuto con le stesse personalità nel corso delle ultime settimane".
"Non distruggere Hamas a Rafah significa inviare un camion dei pompieri per spegnere l'80% dell'incendio", ha detto Gantz a Sullivan. Harris e altri funzionari hanno fatto notare che sarebbe impossibile evacuare un milione e duecentomila abitanti di Gaza dall'area di Rafah, un'evacuazione che essi considerano una precondizione essenziale per qualsiasi operazione militare nella zona meridionale della Striscia di Gaza. "Gantz non si è mostrato affatto d'accordo".
Discutendo la questione degli aiuti umanitari sono emerse divergenze anche più gravi. Mentre molti cittadini dello stato sionista hanno accolto furibondi la decisione di permettere la consegna di rifornimenti al nemico perché [lo considerano] un gesto che ha aiutato Hamas, ha prolungato la guerra e ha ritardato il raggiungimento di un accordo sugli ostaggi, gli statunitensi ritengono che lo stato sionista non stia facendo abbastanza. Gli assistenti di Biden hanno persino accusato i funzionari sionisti di mentire sulla quantità di aiuti consegnati e sulla cadenza delle consegne.
Ovviamente la questione degli aiuti è diventata (come è giusto) il tema fondamentale per le prospettive elettorali del Partito Democratico, ma Gantz non intende prenderne atto. Come nota Kahana: "Purtroppo, i più alti funzionari dell'amministrazione statunitense sono fuori dalla realtà anche quando si tratta di altri aspetti della guerra. Credono ancora che l'Autorità Palestinese palestinese debba governare a Gaza, che la pace possa essere raggiunta in futuro attraverso la 'soluzione dei due Stati' e che un accordo per normalizzare i rapporti con l'Arabia Saudita sia a portata di mano. Gantz è stato costretto a smentire questa lettura errata della situazione".
I funzionari dell'amministrazione statunitense hanno quindi ascoltato dalle labbra di Gantz la stessa agenda politica che gli aveva ripetuto Netanyahu negli ultimi mesi. Gantz ha anche avvertito che cercare di metterlo contro Netanyahu era inutile: potrebbe anche avere voglia di sostituire Netanyahu come primo ministro, ma le sue politiche non sarebbero sostanzialmente diverse da quelle dell'attuale governo, ha spiegato.
Ora che i colloqui sono finiti e che Gantz ha detto ciò che ha detto, la Casa Bianca sta facendo i conti con una nuova esperienza: quella dei limiti al potere degli Stati Uniti e all'automatico adeguarsi alla volontà statunitense da parte di altri paesi, fossero pure gli alleati più stretti.
Gli Stati Uniti non possono imporre la loro volontà allo stato sionista, né costringere un "Gruppo di contatto arabo" a formarsi, né obbligare questo presunto gruppo di contatto a sostenere e finanziare le "soluzioni" per lo meno fantasiose che Biden ha per Gaza. È un momento rivelatore per il potere degli Stati Uniti.
Netanyahu è una vecchia volpe, per certe cose a Washington. Si vanta della sua capacità di interpretare bene la politica statunitense. Senza dubbio ha messo in conto il fatto che Biden può anche alzare di un tono o due il registro della retorica, ma si trova comunque legato mani e piedi perché è lui che può determinare la distanza che separa Biden dai generosi finanziatori ebrei in un anno di elezioni.
Lo stesso Netanyahu d'altra parte sembra aver concluso che può tranquillamente ignorare Washington, almeno per i prossimi dieci mesi.
Biden sta cercando disperatamente di arrivare a un cessate il fuoco; ma anche in questo caso -per lo schieramento politico statunitense gli ostaggi sono un tema su cui la va o la spacca- gli Stati Uniti non sono in grado di fare nulla. Si chiede all'ultimo minuto a Hamas di dire quanti ostaggi sono ancora vivi.
Una richiesta del genere può anche sembrare ragionevole a chi non è addentro alla questione, ma gli Stati Uniti sono tenuti a sapere che né Hezbollah né Hamas forniscono senza contropartite la prova che ci sono ostaggi ancora vivi: esiste un prezzo da pagare, in termini di rapporto di scambio tra cadaveri e ostaggi vivi. Esiste una lunga casistica in cui i sionisti hanno chiesto prove analoghe, con richieste finite nel nulla.
Secondo i notiziari lo stato sionista si rifiuta di concordare il ritiro da Gaza; si rifiuta di consentire ai palestinesi del nord di Gaza di tornare alle loro case e si rifiuta di accordarsi per un cessate il fuoco totale.
Sono tutte richieste che vengono direttamente da Hamas, non sono certo una novità. Perché Biden dovrebbe mostrarsi sorpreso o offeso perché vengono ripetute ancora una volta: Sinwar non sta certo giocando al rialzo, come invece sostengono i media occidentali e quelli sionisti. Sorpresa e irritazione nascono piuttosto dal fatto che Washington ha fatto propria una strategia negoziale non realistica.
Secondo il quotidiano Al-Quds, Hamas ha presentato al Cairo "un documento finale non negoziabile". Questo include, tra l'altro, la richiesta di fermare i combattimenti a Gaza per un'intera settimana prima di procedere a un accordo per la liberazione degli ostaggi, e quella di un esplicito impegno da parte dello stato sionista a un ritiro completo dalla Striscia, con tanto di garanzie internazionali.
Hamas chiede inoltre che tutti gli abitanti di Gaza abbiano il diritto incondizionato di tornare alle loro case, nonché l'ingresso dei rifornimenti in tutta la Striscia di Gaza senza alcuna ripartizione di sicurezza fin dal primo giorno di entrata in vigore dell'accordo. Secondo il documento di Hamas, il rilascio degli ostaggi inizierebbe una settimana dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco. Hamas respinge la richiesta dello stato sionista di esiliare e mandare all'estero un qualsiasi suo appartenente o un qualsiasi suo capo. Qualcosa di simile si verificò in occasione del rilascio degli ostaggi dell'assedio alla Chiesa della Natività, dove un certo numero di palestinesi è stato esiliato in paesi dell'Unione Europea; un atto che all'epoca fu molto criticato.
In una clausola separata, Hamas ha dichiarato che né da parte sua né da quella di altre organizzazioni palestinesi saranno forniti elenchi di ostaggi fino a quarantotto ore prima dell'entrata in vigore dell'accordo. L'elenco dei prigionieri di cui Hamas reclama la liberazione è lungo, e comprende i nomi di cinquantastte persone che erano state rilasciate nell'ambito dell'accordo su Gilad Shalit del 2011 e che successivamente erano state arrestate nuovamente. Comprende poi tutti i detenuti in regime di sicurezza[*] di sesso femminile e minori; tutti i detenuti in regime di sicurezza malati e tutti i detenuti ultrasessantenni.
Secondo l'articolo solo dopo il completamento della prima fase inizieranno i negoziati per la fase successiva dell'accordo.
Queste richieste non dovrebbero sorprendere nessuno. Una convinzione fin troppo diffusa tra persone poco esperte vuole che quando ci sono di mezzo degli ostaggi si possa arrivare ad un accordo in modo relativamente facile e veloce con i toni retorici, i mass media e le pressioni diplomatiche. La realtà è diversa. In media occorre più di un anno di tempo per concordare la liberazione di ostaggi.
L'esecutivo di Biden deve cambiare urgentemente il proprio approggio alla questione, e interiorizzare innanzitutto il fatto che è lo stato sionista che si sta staccando dalla stantìa e mal fondata condiscendenza degli Stati Uniti. La maggior parte dei cittadini dello stato sionista è d'accordo con Netanyahu, che il 9 marzo ha ribadito che "questa è una guerra in cui è in gioco l'esistenza, e dobbiamo vincerla".
Come mai lo stato sionista può pensare di fare a meno degli Stati Uniti? Forse perché Netanyahu sa che la conformazione del potere che negli USA (come in Europa) controlla gran parte, se non la maggior parte, del denaro che plasma la politica statunitense e che in particolare contribuisce all'orientamento del Congresso, dipende fortemente dall'esistenza di una causa sionista e dal fatto che essa continui a esistere. Non è quindi lo stato sionista a dipendere in tutto e per tutto dalla conformazione del potere degli Stati Uniti e dalla loro "buona volontà" come Biden presuppone.
La "causa dello stato sionista" conferisce alle strutture della politica interna statunitensi la loro significatività politico, il loro programma e la loro legittimità. Un "no allo stato sionista" toglierebbe loro la terra da sotto i piedi e lascerebbe gli ebrei statunitensi a vivere nell'insicurezza. Netanyahu lo sa, e sa anche che l'esistenza di lo stato sionista, di per sé, consente a Tel Aviv di influire in una certa misura sulla politica statunitense.
A giudicare dal discorso sullo Stato dell'Unione del 9 marzo, l'amministrazione statunitense non è in grado di barcamenarsi nell'attuale impasse con lo stato sionista, e si sta invece incaponendo sui propri logori e banali punti fermi. Servirsi del discorso sullo stato dell'Unione come di un pulpito per imporre il vecchio modo di pensare non rappresenta una strategia. Anche l'idea di costruire un molo a Gaza è una storia vecchia. Non risolve nulla e serve solo a consolidare ulteriormente il controllo sionista sui confini di Gaza e su ogni possibile prospettiva per il dopo occupazione. Cipro prenderà il posto di Rafah, per i controlli di sicurezza dello stato sionista. Un tempo a Gaza c'erano sia un porto che un aeroporto internazionale; ovviamente sono stati entrambi ridotti in macerie da tempo dai bombardamenti sionisti.
La poca o nulla attenzione per il principio di realtà non può essere considerata come un fastidioso accidente cui porre rimedio imponendo a chi si occupa della campagna elettorale di gestire meglio le pubbliche relazioni. I funzionari sionisti e statunitensi vanno dicendo da tempo che la tensione potrebbe salire all'improvviso in concomitanza con l'inizio del Ramadan il 10 marzo. La rete Channel 12 dello stato sionista (in ebraico) riferisce che il capo del servizio di informazioni militare Aman ha avvertito il governo sionista, con un documento riservato, che esiste la possibilità che durante il mese di Ramadan scoppi una guerra a carattere religioso con una prima escalation nei territori palestinesi e poi l'estensione a fronti differenti fino alla sua trasformazione in una guerra regionale.
Questo avvertimento -sostiene Channel 12- è stato il motivo principale alla base della decisione di Netanyahu di non imporre Netanyahu di non imporre restrizioni più dure del solito ai palestinesi che entrano ad Al-Aqsa per le preghiere del Ramadan.
Sì, le cose potrebbero andare peggio, molto peggio, per lo stato sionista.



[*] Secondo Adalah un security prisoner è qualcuno che viene "incarcerato e condannato per aver commesso o perché sospettato di un reato che per la sua natura o per le circostanze in cui è avvenuto viene considerato contrario alla sicurezza, o per motivazioni nazionaliste". In pratica sono classificati in questo modo tutti i prigionieri accusati di atti ostili contro l'occupazione sionista (N.d.T.).

mercoledì 6 marzo 2024

Alastair Crooke - Posizioni insostenibili: aumentano i segnali di allarme per la politica statunitense

 


 Traduzione da Strategic Culture, 4 marzo 2024.

"Le elezioni locali di martedì 27 febbraio sono state un segnale di allarme per lo stato sionista. I partiti ultraortodossi, i gruppi sionisti religiosi e i partiti di estrema destra e razzisti, presenti in forma organizzata in poche collettività, hanno ottenuto incrementi di suffragi sproporzionati rispetto alle reali dimensioni dei gruppi che rappresentano. Al contrario il campo democratico [in gran parte laico, liberale e ashkenazita], che per quasi un anno ha partecipato settimanalmente a gigantesche manifestazioni in Kaplan Street a Tel Aviv e in decine di località in tutto il paese, nella maggior parte dei casi non è riuscito a tradurre la rabbia in un incremento di consenso elettorale a livello di amministrazioni locali".
"Un'altra conclusione da trarre dalle elezioni", continua l'editoriale di Haaretz, "è la crescente somiglianza tra il partito di governo Likud e [il partito di Ben Gvir] l'estrema destra Otzma Yehudit, Supremazia ebraica. A Tel Aviv, i due partiti si sono presentati insieme; una scelta inimmaginabile nel Likud di prima che arrivasse Benjamin Netanyahu... Possiamo dedurre da questo che il Likud sta cambiando: Meir Kahane [fondatore della destra radicale ebraica e del partito Kach] ha sconfitto Ze'ev Jabotinsky; la supremazia ebraica e il trasferimento forzato della popolazione hanno sostituito la libertà".
In parole povere, lo stato sionista si sta spostando sempre più a destra.
Un altro segnale di allarme: nelle primarie democratiche (virtualmente) senza vero scontro, negli Stati Uniti,
una coalizione di gruppi pro-palestinesi aveva fissato un modesto obiettivo di diecimila voti generici -ovvero senza espressione di appoggio per un candidato specifico- pari al margine di vittoria di Trump in Michigan nel 2016 per cercare di far capire che la frustrazione degli elettori per l'appoggio di Biden alla campagna militare di lo stato sionista poteva costargli le elezioni di novembre... Questi voti generici però hanno superato l'obiettivo dei diecimila e sono arrivati a quasi centoquattromila voti, circa il 13% del totale. Biden ha ottenuto più dell'80% dei voti, ma il numero di voti non impegnati è stato sufficiente per inviare due delegati "non impegnati" alla convention nazionale del Partito Democratico ad agosto.
"Il pericolo maggiore per il Presidente non è che troppe persone abbiano espresso un voto generico", ha dichiarato l'ex rappresentante Andy Levin (democratico per il Michigan) che ha appoggiato l'iniziativa. "Il pericolo maggiore è che non recepisca il messaggio".
Un terzo segnale d'allarme: con il piano che prevede per Gaza una volta cessate le operazioni militari, Netanyahu ha virtualmente dichiarato guerra a Biden e alla sua campagna per la rielezione:
Lungi dal muoversi verso [la] soluzione a due Stati promossa da Biden, Netanyahu intende procedere a un'occupazione ancora più vasta e illimitata nel tempo non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania e in tutte le altre aree che altrimenti potrebbero costituire uno Stato palestinese indipendente. In effetti, Netanyahu chiede la conquista totale da parte dello stato sionista di quanto rimane della Palestina; l'esatto contrario di ciò che vorrebbero Biden e il resto del mondo.
In parole povere: Netanyahu sta mettendo Biden tra l'incudine e il martello, e il diavolo sa che per una potenziale rielezione Biden dipende moltissimo non solo dal voto ebraico, ma soprattutto dal denaro ebraico. Netanyahu pare convinto di avere un margine di manovra sufficiente per ignorare Biden e, per i prossimi otto mesi circa, perseguire senza ostacoli la sua ambizione: prendere il controllo della "Grande Israele" fino al fiume Litani nel Libano meridionale, e consolidare l'ebraicizzazione di Gerusalemme.
Persino Tom Friedman del New York Times comincia a mostrare qualche segno di panico:
Mi era sembrato, almeno all'inizio, che il mondo fosse pronto ad accettare che ci sarebbero state significative vittime civili se lo stato sionista avesse voluto sradicare Hamas e salvare gli ostaggi... Ma adesso ci ritroviamo in una situazione irriferibile, con migliaia di vittime civili e un piano di pace da parte di Netanyahu che prefigura solo un'occupazione senza fine... Quindi ci sono sempre più persone cui l'intera operazione dello stato sionista a Gaza comincia a sembrare un macello il cui unico obiettivo è quello di ridurre la popolazione in modo che lo stato sionista possa controllarla più facilmente... E questo, ripeto, metterà l'amministrazione Biden in una posizione sempre più insostenibile.
Il panico sta montando anche per quanto riguarda l'Ucraina: i leader europei sono stati convocati con un preavviso di ventiquattro ore all'Eliseo perché andassero a sentire il Presidente Macron asserire che la situazione sul terreno in Ucraina era così critica e la posta in gioco per l'Europa così alta che "ci troviamo a un punto critico del conflitto, in cui dobbiamo prendere l'iniziativa: siamo determinati a fare tutto il necessario per tutto il tempo necessario".
Macron ha sottolineato i crescenti dubbi sulla disponibilità degli USA a continuare con il sostegno a Kiev e ha messo in guardia verso una potenziale nuova offensiva russa, paventando attacchi brutali pianificati per "scioccare" gli ucraini e i loro alleati. "Siamo convinti che la sconfitta della Russia sia essenziale per la sicurezza e la stabilità dell'Europa"... "L'Europa è in gioco".
Macron ha portato esplicitamente avanti un'operazione di facciata per strappare la leadership della difesa e della sicurezza in Europa alla Germania, che sta costruendo un asse militare legato agli Stati Uniti in alleanza con la Polonia, i Paesi baltici e la presidente della Commissione europea, l'ex ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen, e per avocarla nuovamente alla Francia.
In ogni caso, l'uscita di Macron è finita in un fiasco completo. La sua richiesta è stata immediatamente sconfessata sia in Francia che da altri leader europei. Nessuno dei convocati da Macron si è trovato d'accordo con lui, tranne forse gli olandesi. Dietro la precipitosa messa in scena dell'Eliseo, tuttavia, si nasconde un obiettivo più serio: quello di centralizzare ulteriormente il controllo dell'UE attraverso la costruzione di una difesa comune.
Per finanziare questa difesa unificata europea la Commissione sta cercando di dare il via all'emissione di obbligazioni unitarie dell'UE e a un meccanismo di tassazione centralizzato, entrambi vietati dai Trattati dell'Unione Europea. Dietro la narrazione allarmistica sull'intenzione russa di invadere l'Europa si celano intenti come questi.
A parte questo, in Europa la disperazione e la colpevolizzazione per la débacle ucraina stanno prendendo piede sul serio: il Cancelliere Scholtz, nel difendere la decisione di Berlino di non fornire missili Taurus a lungo raggio a Kiev, si è tolto d'impaccio mettendo in grave imbarazzo Francia e Regno Unito.
Scholtz ha affermato che fornire missili Taurus avrebbe richiesto l'assistenza di truppe tedesche sul terreno "come fanno i britannici e i francesi, in termini di controllo dei bersagli [missilistici] e di assistenza alla loro acquisizione. I soldati tedeschi non possono in nessun momento e in nessun luogo essere collegati agli obiettivi che questo sistema [a lungo raggio] raggiunge", ha insistito Scholz.
Inutile dire che la sua esplicita ammissione del fatto che in Ucraina si trovano truppe europee già presenti sul terreno ha scatenato un putiferio, in Europa.
Il fatto, a lungo sospettato, ha adesso una conferma ufficiale.
Ma cos'è che ha provocato un'ondata di isteria ancora più forte in Europa, al di là dei teatrini di Macron?
Molto probabilmente due cose. In primo luogo l'abbandono di Avdiivka da parte delle forze ucraine, cui è seguito l'improvviso shock di rendersi conto che non ci sono vere linee difensive ucraine dietro Avdiivka, ma solo alcune frazioni e poi campi aperti.
In secondo luogo, l'epico reportage del New York Times intitolato The Spy War: how the CIA secretly helps Ukraine fight Putin ("La guerra delle spie: come la CIA aiuta segretamente l'Ucraina a combattere Putin") di Adam Entous e Mitchell Schwirtz, che descrive un decennio di cooperazione tra CIA e Ucraina e ricorda a tutti che gli Stati Uniti potrebbero tagliare i ponti con Kiev molto presto... a meno che non venga approvata la legge sugli stanziamenti.
Adam Entous è stato anche coautore di un articolo del 2017 dello Washington Post intitolato Obama's secret struggle to punish Russia or Putin's elections assault ("La segreta contesa di Obama per punire la Russia per le interferenze elettorali di Putin") che, come nota Matt Taibbi, raccontava la storia da film di come John Brennan [allora capo della CIA] avesse consegnato a Barack Obama l'equivalente spionistico di una bomba, proveniente da una fonte preziosa "nel profondo del governo russo".
L'avvincente racconto rivelava come la CIA non solo fosse venuta a conoscenza del coinvolgimento diretto di Vladimir Putin in una campagna per "danneggiare" Hillary Clinton e "favorire l'elezione del suo avversario Donald Trump", ma avesse riferito in anteprima al Presidente questa notizia segreta... prima di raccontarla al mondo intero, ovviamente).
Si trattava, ovviamente, di un'assurdità: era la narrazione di base per quello che sarebbe diventato il Russiagate.
Il reportage del New York Times su ricordato mostra una narrativa revisionista sull'Ucraina piena di affermazioni discutibili, che si ripercuotono sulla CIA e in particolare sul ruolo di John Brennan; il testo probabilmente è stato interpretato dai servizi segreti occidentali come una lettera di addio nell'imminenza di un divorzio. La CIA si sta preparando a lasciare l'Ucraina.
Come ci si può aspettare in qualsiasi lettera del genere, vi si indora la pillola in modo da scagionare l'autore da ogni colpa e responsabilità legale (per omicidio ed assassinio): "Un sottile leitmotiv permea di sé tutto il testo: la civile AmeriKKKa non fa che implorare gli ucraini di smetterla di commettere atrocità".
Con l'intensificarsi della collaborazione "dopo il 2016", riporta il Times, gli ucraini "hanno iniziato a praticare omicidi e altre operazioni letali, violando termini che la Casa Bianca pensava fossero stati accettati". Gli statunitensi erano "infuriati" e "hanno minacciato di togliere il loro sostegno", ma non lo hanno mai fatto, nota Taibbi.
Non si sa se il Presidente della Camera Johnson continuerà su questa linea rifiutandosi di portare in aula la legge sugli aiuti per l'estero che prevede sessanta miliardi di dollari per Kiev, o se invece non sarà in grado di perseverare.
Tuttavia, la questione è ormai all'ordine del giorno, come ha osservato il leader della minoranza al Senato McConnell, annunciando il suo prossimo ritiro da capogruppo: "La politica è cambiata, me ne rendo conto", ha detto.
La base del Partito Repubblicano non è favorevole alla concessione di ulteriori fondi all'Ucraina: le prospettive che il provvedimento passi sono scarse o nulle.
Il punto che chiaramente spaventa i servizi di intelligence europei è che gran parte dei successi ottenuti dall'Ucraina deriva da un fattore chiave: la supremazia occidentale nei campi dell'intelligence, della sorveglianza e della ricognizione. Gli armamenti della NATO hanno deluso, la dottrina militare della NATO è stata criticata dalle forze ucraine, ma intelligence sorveglianza e ricognizione sono state fondamentali.
Il reportage del New York Times è chiaro: "...un passaggio discreto scende in un bunker sotterraneo dove squadre di soldati ucraini tracciano i satelliti spia russi e origliano le conversazioni tra comandanti russi...". Si tratta di soldati ucraini o di tecnici della NATO?
Quando la CIA se ne andrà a causa dei tagli ai fondi, non sarà solo il suo personale ad andarsene. La CIA non lascerà dietro di sé attrezzature sensibili e apparecchiature di intercettazione destinate a cadere nelle mani dei russi per essere sottoposte ad autopsie forensi. Qualcosa di simile è già successo? Quei bunker segreti si trovavano forse ad Avdiika? Stanno per trapelare dettagli delicati?
In ogni caso, l'"assistenza" dell'intelligence europea all'Ucraina sarà depauperata al massimo dal ritiro di personale e attrezzature da parte della CIA. In tal caso, cosa potranno fare gli europei? Possono effettuare ricognizioni aeree; possono utilizzare i satelliti della NATO, ma non in modo capillare.
E poi gli ucraini, inferociti e abbandonati, non potrebbero inventarsi una narrazione tutta loro? Il capo dei servizi segreti ucraini Kirill Budanov ha appena sabotato la narrazione occidentale per cui è stato Putin a uccidere Navalny: interrogato su questa morte, Budanov ha detto: "Forse vi deluderò, ma sappiamo che è morto per un coagulo di sangue. È più o meno confermato. Non è una notizia presa da Internet".
Budanov ha smentito anche altre versioni statunitensi: la settimana scorsa la Reuters ha citato sei fonti sicure che "l'Iran ha fornito alla Russia un gran numero di potenti missili balistici di superficie". Budanov ha risposto dicendo che di missili iraniani "qui non ce ne sono" e che tali informazioni "non corrispondono alla realtà". Ha anche smentito le dichiarazioni sui missili nordocoreani che la Russia avrebbe schierato, secondo un'altra storia statunitense degli ultimi tempi: "Sono stati utilizzati alcuni missili nordcoreani", ha detto, "ma le affermazioni circa un loro utilizzo massiccio non corrispondono al vero".
Qui sta l'elemento essenziale del pezzo del New York Times: il timore di ricadute da parte di funzionari ucraini delusi. "Soprattutto in un anno di elezioni, qualsiasi guerra di parole tra ex alleati potrebbe diventare spiacevole in un batter d'occhio".
E con questo, Biden è avvisato. Forse già troppo tardi?

mercoledì 28 febbraio 2024

Alastair Crooke - Gli Stati Uniti cercano di limitare la violenza in Medio Oriente: in questo l'Iran è quasi un alleato

 


 Traduzione da Strategic Culture, 26 febbraio 2024.

La duplice strategia dello stato sionista in Libano consiste nel fare pressione attraverso incursioni dirette per incutere timore nella popolazione generale, e nel dispiegare al contempo pressioni diplomatiche per allontanare Hezbollah non solo dal confine, ma anche dalle regioni oltre il fiume Litani (circa 23 km a nord).
Solo che Hezbollah non si muove.
Resiste a piè fermo: non intende allontanarsi dalle regioni del sud che sono la sua culla storica e si rifiuta di discutere la questione.
"Se questa minaccia non sarà eliminata per via diplomatica non esiteremo a intraprendere un'azione militare", insistono ripetutamente i ministri dello stato sionista. Un sondaggio del quotidiano dello stato sionista Ma'ariv ha mostrato che il 71% dei cittadini ritiene che lo stato sionista dovrebbe lanciare un'operazione militare su larga scala contro il Libano per tenere Hezbollah lontano dal confine. Ancora una volta, gli Stati Uniti accettano l'idea che lo stato sionista debba organizzare un'operazione militare in Libano.
Il coordinatore speciale degli Stati Uniti Amos Hochstein, pur sottolineando l'assoluta necessità che i residenti facciano ritorno alle loro case nel nord dello stato sionista, afferma che gli Stati Uniti stanno comunque cercando di mantenere le ostilità in Libano al livello più basso possibile. Ha sottolineato che
Quello che stiamo cercando di fare è di assicurarci di mantenere gli scontri al livello più basso possibile e di lavorare su soluzioni durature che possano portare alla cessazione delle ostilità. Ci sarà molto da fare, sia per costruire le forze armate libanesi che per rimettere in sesto l'economia del Libano meridionale. Questo richiederà il sostegno di una coalizione internazionale, non solo degli Stati Uniti.
In parole povere: Hezbollah ha creato una zona esposta al fuoco che è una zona cuscinetto all'interno dello stato sionista e che si estende per oltre cento chilometri, penetrando in profondità per cinque - dieci chilometri. Lo stato sionista vuole tornare a controllare questa zona cuscinetto e ora insiste per averne invece una propria, fino al cuore del Libano, per "rassicurare" i suoi abitanti di confine che stanno tornando alle loro case: saranno al sicuro.
Hezbollah si rifiuta di cedere un centimetro mentre la guerra a Gaza continua, e le due questioni finiscono per diventare una sola.
Netanyahu ha detto tuttavia chiaramente che la guerra a Gaza deve continuare -e sarà lunga- finché tutti gli obiettivi dello stato sionista (probabilmente irrealizzabili) non saranno raggiunti. Solo che la questione dei cittadini sionisti sfollati sta diventando importante nell'immediato. La tensione in tutta la regione è alta e sta crescendo, mentre si avvicina il Ramadan e si profila un'incursione dello stato sionista a Rafah.
I media sionisti riferiscono che
I funzionari statunitensi temono che il Ramadan possa diventare una "tempesta perfetta", portando al deflagrare di un conflitto regionale.
La totale condiscendenza di Netanyahu nei confronti dei suoi partner di coalizione di estrema destra riguardo all'accesso degli arabi cittadini dello stato sionista al Monte del Tempio, ovvero al complesso di Al Aqsa, durante il Ramadan ha allarmato i funzionari statunitensi, anche se questo è solo uno dei tanti fattori che alimentano il timore che una serie di tendenze preoccupanti possa concretizzarsi e causare tensioni in Medio Oriente nelle prossime due settimane.
In questo momento è in corso un breve momento di calma, con i negoziatori per gli ostaggi che si riuniscono al Cairo e gli Stati Uniti che fanno tutto il possibile perché si arrivi a un sostanziale cessate il fuoco.
Solo che prima o poi lo stato sionista inizierà un'operazione militare in Libano, operazione che in un certo senso è già in corso. Il governo sionista si sente obbligato a cercare il modo di ripristinare la deterrenza. Il ministro Smotrich ha detto che questo obiettivo, in ultima analisi, è più importante anche della liberazione degli ostaggi.
La Resistenza potrebbe riconfigurarsi in vari modi, oltre che seguendo quello di Hezbollah, nel momento in cui lo stato sionista prenderà l'iniziativa in Libano; gli alleati della Resistenza in Iraq potrebbero riprendere a colpire le basi statunitensi, la Siria potrebbe assumere un ruolo più importante e le forze Houthi potrebbero alzare il livello degli attacchi alle navi dello stato sionista, statunitensi e britanniche.
Ed ecco il paradosso: la "soluzione" su cui gli Stati Uniti fanno affidamento per arginare la violenza, e che è rappresentata dalla deterrenza statunitense, un deterrente non lo è più. L'atteggiamento nei confronti della "deterrenza" statunitense tra le forze della Resistenza ha subito uno stravolgimento totale; c'è stato un cambiamento nelle tattiche cui la coscienza occidentale non ha prestato attenzione sufficiente, sempre che si sia degnata di farlo.
Sergei Witte, storico militare, ha descritto in poche parole la questione:
Per cominciare, bisogna capire la logica dei dispiegamenti strategici statunitensi. Gli USA (e la NATO) hanno fatto un uso generoso di uno "strumento" di deterrenza noto colloquialmente come Tripwire Force. Si tratta di una forza sottodimensionata e dispiegata in zone di potenziale conflitto, con l'obiettivo di dissuadere dalla guerra indicando che gli USA sono intenzionati a rispondere.
Un tripwire, un filo di innesco, può presentare degli inconvenienti. Sebbene l'idea sia quella delle deterrenza, nelle mani dei falchi sionisti e statunitensi contro l'Iran queste basi sottodimensionate e vulnerabili si trasformano da deterrente a esche, piazzate apposta perché qualche grosso pesce più o meno iraniano vi abbocchi; ed ecco servita ai falchi la tanto desiderata guerra con l'Iran. Ecco perché le forze statunitensi rimangono in Siria e in Iraq. Quello della "lotta all'ISIS" è sostanzialmente un pretesto.
Il problema, e in effetti anche il limite di questi schieramenti avanzati ridotti all'osso, è che sono troppo piccoli per scoraggiare in modo credibile un attacco, ma abbastanza grandi da invitare qualcuno ad attaccare, magari le irate forze della milizia irachena infuriate per i massacri di Gaza.
Hochstein ci dice che il piano degli Stati Uniti è quello di "gestire" i conflitti (Gaza, Cisgiordania e Libano) mantenendo lo scontro al livello più basso possibile. Eppure a ben vedere gli attacchi di rappresaglia contro le milizie -la risposta standard, nella cassetta degli attrezzi statunitense- sono relativamente inutili per contenere la violenza; la provocano, piuttosto che scoraggiarla. Come conclude Witte:
Vediamo queste dinamiche in atto in un Medio Oriente in cui la perdita di efficacia del potere deterrente degli USA potrebbe presto costringerli a iniziative di maggiore aggressività". Ecco perché le voci che invocano la guerra con l'Iran, per quanto folli e pericolose possano essere, hanno in realtà colto un aspetto cruciale del calcolo strategico statunitense. Le misure limitate non bastano più per intimidire, e questo può togliere dalle alternative qualsiasi scelta diversa da un coinvolgimento a tutti gli effetti.
È a questo punto che l'Iran e la Resistenza giocano il loro ruolo paradossale. Gli Stati Uniti (nonostante i fanatici neocon) non vogliono una guerra di vasta portata, e nemmeno l'Iran. Quest'ultimo, tuttavia, sembra capire che gli attacchi delle milizie irachene alle basi statunitensi avranno anche l'intenzione di mettere sotto pressione gli Stati Uniti affinché si ritirino dall'Iraq, ma finiscono al contrario per fornire ai neoconservatori il pretesto -l'Iran come "testa del serpente"- per spingere a ostilità a tutto campo contro la Repubblica Islamica.
L'interesse dell'Iran e dell'Asse è duplice: primo, mantenere il potere di calibrare con finezza l'intensità del conflitto; secondo, mantenere l'iniziativa nell'escalation. Come nota Al-Akhbar:
La Resistenza, con tutte le sue ramificazioni, non ha intenzione di cedere a condizioni dettate dallo stato sionista suscettibili di aprire la strada a un cambiamento importante nell'equazione che protegge il Libano. Qualsiasi accordo successivo dipenderà dal posizionamento che la Resistenza sceglierà per preservare le sue capacità di deterrenza e di difesa.
Quindi, in Iraq, il capo della Forza al Quds all'interno dell'IRGC ha consigliato alle milizie irachene di cessare il fuoco, per il momento. Questa iniziativa è comunque nell'interesse del governo iracheno, che vuole che tutte le forze statunitensi lascino il paese.
L'armamentario del tripwire schierato dall'Occidente è un classico esempio di paradosso strategico. Un vantaggio di deterrenza che svapora rischia di costringere gli Stati Uniti a un massiccio ed eccessivo dispiegamento militare (anche quando non ne avrebbero l'intenzione). Ed è così che gli USA si trovano sotto scacco matto. Il loro pezzo, bloccato su una casella, è il "Re" sionista; solo che ogni potenziale mossa successiva promette solo di peggiorare la situazione di partenza.
Inoltre, gli Stati Uniti sono messi in scacco matto dal blocco cognitivo che li porta a non interiorizzare del tutto i concetti con cui il generale Qassem Suleimani ha operato mutamenti nella deterrenza già sperimentati nel 2006 durante la guerra dello stato sionista contro Hezbollah.
Lo stato sionista, come gli Stati Uniti, gode da tempo della superiorità aerea. Come si è comportata la Resistenza per far fronte a questa situazione? Una delle inziative è stata quella di trincerare forze, missili e tutti i mezzi strategici a una profondità che nemmeno le bombe per distruggere i bunker riescono a raggiungere. I lanciamissili possono emergere dal suolo, sparare e tornare a esservi riparati. Tutto in novanta secondi.
Altra iniziativa, l'approntamento di una costellazione di combattenti inquadrati in unità autonome addestrate per combattere ininterrottamente secondo un piano prestabilito per un anno o anche due, anche se tutte le comunicazioni con il quartier generale dovessero interrompersi del tutto.
Nel 2006 Hezbollah capì che la capacità della popolazione civile dello stato sionista di tollerare quotidiani e intensi bombardamenti missilistici era molto limitata, e che lo stato sionista non aveva munizioni sufficienti a una campagna di bombardamenti aerei di lunga durata. In quella guerra, Hezbollah continuò a lanciare razzi e missili continuamente, per trentatré giorni. Fu sufficiente; lo stato sionista cercò di porre fine alla guerra. La lezione è che le guerre di oggi sono guerre di logoramento, come nel caso dell'Ucraina, più che campagne di breve durata.
Così, la Resistenza cerca di mantenere il controllo sull'intensità dello scontro al fine di distruggere lo stato sionista, mentre l'esecutivo sionista vuole passare direttamente alla sua versione del Giorno del Giudizio. L'incapacità di interiorizzare le implicazioni di questa nuova guerra asimmetrica ideata dal generale Suleimani -l'arroganza gioca un ruolo importante, in questo- spiega come mai gli Stati Uniti possano essere così ottimisti nei confronti dei rischi che corrono, sia essi stessi che lo stato sionista. Sono rischi che ad altri sembrano ovvi. Gli ufficiali addestrati dalla NATO semplicemente non riescono a concepire come una potenza militare come quella sionista non riesca a prevalere su formazioni di milizia come Hezbollah e gli Houthi. Né riescono a capire come delle tribù di straccioni possano prevalere in un grande scontro bellico navale.
Ma basta ricordare tutti gli "esperti" che avevano previsto che Hamas sarebbe stato schiacciato nel giro di pochi giorni dalla macchina militare dello stato sionista, infinitamente più pesante...

mercoledì 21 febbraio 2024

Alastair Crooke - Stato sionista: l'Asse della Resistenza ha un piano. Con i fantasiosi stratagemmi statunitensi sono assicurati fallimenti a ripetizione

 


Traduzione da Strategic Culture, 19 febbraio 2024.

  In un discorso tenuto il 13 febbraio 2024 il leader di Hezbollah Seyed Nasrallah ha dichiarato che il partito continuerà l'offensiva sul confine almeno fino a quando non cesserà il massacro a Gaza. La guerra a Gaza tuttavia è tutt'altro che finita. E Nasrallah ha avvertito che anche se si dovesse raggiungere un cessate il fuoco a Gaza, "se il nemico dovesse prendere una qualsiasi iniziativa, torneremo a operare secondo la prassi e le regole cui ci eravamo in precedenza attenuti. Scopo della resistenza è quello di imporre una deterrenza al nemico, e noi reagiremo di conseguenza".
Il Ministro della Difesa dello stato sionista Gallant ha sottolineato che, contrariamente alle aspettative della comunità internazionale, si aspetta che la guerra in Libano continui. Gallant ha dichiarato che l'esercito ha intensificato gli attacchi contro Hezbollah di un livello, su una scala da uno a dieci:
"Gli aerei dell'aeronautica militare che volano attualmente nei cieli del Libano hanno bombe più pesanti per obiettivi più lontani. Hezbollah è salito di mezzo gradino, noi di uno intero... Possiamo attaccare non solo fino a venti chilometri [dal confine], ma anche fino a cinquanta chilometri, a Beirut e in qualsiasi altro luogo".
Non è chiaro quale sia la "linea rossa" che Hezbollah dovrebbe oltrepassare perché lo stato sionista risponda in modo significativamente più intenso, fino a livelli molto più alti; i leader sionisti hanno suggerito che un attacco a un sito strategico, un attacco che porti a gravi perdite fra i civili o un sostanziale sbarramento su Haifa potrebbero costituire il punto di rottura.
Nel nord dello stato sionista sono ora schierate tre divisioni, non una come di consueto; l'esercito sionista ha più forze pronte ad agire sul confine settentrionale che a prepararsi per un'incursione a Rafah, a questo punto. È chiaro, come ha specificato il Capo di Stato Maggiore Halevy, che lo stato sionista si sta preparando alla guerra contro Hezbollah, più che per un'operazione a Rafah.
La minaccia su Rafah è un bluff per fare pressione su Hamas affinché ceda sull'accordo e sugli ostaggi?
In un modo o nell'altro, i capi politici e militari dello stato sionista sono irremovibili: le forze armate sioniste entreranno a Rafah, "prima o poi".
L'attacco sferrato da Hezbollah a Safed contro il quartier generale del comando regionale settentrionale dello stato sionista il 14 febbraio è stato di un tipo diverso dal consueto e ha provocato due morti e altre sette vittime; nello stato sionista viene considerato l'attacco più grave dall'inizio della guerra e Ben Gvir lo definisce una "dichiarazione di guerra". I successivi attacchi sionisti hanno ucciso undici persone, tra cui sei bambini, in una serie di colpi contro villaggi nel sud del Libano, come rappresaglia per il blitz di Safed; il feroce scambio di bordate continua tuttora.
L'attacco contro Safed è andato a colpire in profondità in Galilea; molto probabilmente il suo scopo era quello di segnalare che Hezbollah non ha intenzione di obbedire alle richieste occidentali di accordare allo stato sionista un cessate il fuoco che consenta ai cittadini dello stato sionista evacuati dal nord di fare ritorno alle loro case. Come ha confermato Nasrallah in un duro attacco a quei mediatori esterni (occidentali) che fanno solo i difensori dello stato sionista e non si occupano mai dei massacri a Gaza: "È più facile spostare il fiume Litani in avanti verso i confini, che respingere i combattenti di Hezbollah dai confini fin dietro il fiume Litani... Vogliono che paghiamo un prezzo senza che lo stato sionista si impegni in nulla".
Dato lo stato di cose, i residenti del nord dello stato sionista non torneranno alle loro case, ha fatto capire Naasrallah. E ha lasciato anche intendere che un numero ancora più grande di cittadini dello stato sionista rischia di dover sfollare: "Lo stato sionista deve preparare rifugi, scantinati, alberghi e scuole per ospitare due milioni di coloni che saranno evacuati dal nord della Palestina [se lo stato sionista dovesse espandere la zona di guerra]".
Nasrallah ha così indicato quello che è chiaramente il piano strategico generale dell'Asse della Resistenza. Nell'ultima settimana c'è stata una serie di incontri tra gli alti dirigenti dell'Asse in tutta la regione e Nasrallah sta parlando per conto loro: "Continueremo a combattere lo stato sionista fino a quando non scomparirà dalla carta geografica. Uno stato sionista forte è pericoloso per il Libano; uno stato sionista demoralizzato, sconfitto ed esaurito è meno pericoloso per il Libano".
"L'interesse nazionale del Libano, dei palestinesi e del mondo arabo è che lo stato sionista esca sconfitto da questa battaglia: pertanto, noi ci stiamo impegnando a sconfiggere lo stato sionista".
Detto altrimenti, l'Asse della Resistenza una propria visione sull'esito del conflitto ce l'ha. Ed è quella di uno stato sionista "demoralizzato, sconfitto ed esaurito". Quindi, di uno stato sionista che rinuncia al progetto sionista e che si è riconciliato con l'idea che gli ebrei possano vivere come ebrei tra il fiume e il mare, senza per questo godere di diritti diversi da quelli degli altri che ci vivono. Che sono i palestinesi. Sull'altro fronte esiste un piano strategico occidentale, come riporta lo Washington Post, che gli Stati Uniti e diversi paesi arabi contano di presentare entro poche settimane; è un piano a lungo termine per arrivare a una pace tra stato sionista e palestinesi, che prevede un "calendario" per la creazione di uno "stato" palestinese inizialmente demilitarizzato: "Per forza di cose prevede innanzitutto un accordo sugli ostaggi, accompagnato da un cessate il fuoco di sei settimane tra stato sionista e Hamas. Sebbene possa essere definito "cessazione delle ostilità" o "pausa umanitaria prolungata", tale cessate il fuoco segnerà la fine de facto della guerra secondo le linee e la portata con cui è stata combattuta a partire dal 7 ottobre".
Il piano affronta il tema della Gaza postbellica in termini già noti. Come afferma l'autorevole commentatore sionista Alon Pinkas: "Parallelamente all'annuncio Stati Uniti, Gran Bretagna e forse altri paesi prenderanno in considerazione -e in ultimo pubblicheranno- una dichiarazione d'intenti congiunta in cui riconoscono uno Stato palestinese provvisorio, smilitarizzato e futuro, senza delinearne o specificarne i confini".
"Tale riconoscimento non è necessariamente in contraddizione con la legittima e ragionevole richiesta dello stato sionista di sovrintendere alla sicurezza sull'area a ovest del fiume Giordano nel prossimo futuro... [costituisce] un percorso pratico, con una data tempistica e non reversibile per uno stato palestinese che viva fianco a fianco in pace con lo stato sionista... il cui riconoscimento potrebbe anche essere sottoposto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come risoluzione vincolante. Una volta che i paesi arabi avranno approvato un tale inquadramento, gli Stati Uniti ritengono che né la Russia né la Cina porranno il veto... "Nel contesto della fase di "regionalizzazione", tuttavia, gli statunitensi creeranno un meccanismo di cooperazione per la sicurezza regionale. Alcuni a Washington immaginano una regione riconfigurata, con una nuova "architettura di sicurezza", come antesignana di una versione mediorientale dell'Unione Europea da sviluppare per gradi ai fini di una maggiore integrazione economica e infrastrutturale".
Insomma, eccoci un'altra volta con il Nuovo Medio Oriente!
Persino Alon Pinkas, con la sua lunga esperienza di ex diplomatico per lo stato sionista, ammette: "Vi sembra un piano troppo fantasioso? Non siete gli unici...".
Alla base dell'iniziativa esistono elementi implausibili che si è semplicemente deciso di ignorare. In primo luogo, il ministro delle Finanze dello stato sionista Smotrich ha reagito al piano arabo-statunitense qui accennato affermando che "è in atto un tentativo statunitense, britannico e arabo per fondare uno stato terrorista" a ridosso dello stato sionista. In secondo luogo, (come nota ancora Smotrich): "Vedono i sondaggi. Vedono come la maggioranza assoluta dei cittadini dello stato sionista si opponga a questa idea [di uno stato palestinese]"; in terzo luogo, circa settecentomila coloni sono stati fatti stabilire in Cisgiordania al preciso scopo di impedire la nascita di un qualsiasi stato palestinese.
Gli Stati Uniti hanno davvero intenzione di imporre tutto questo a uno stato sionista ostile? E in che modo?
Inoltre, dal punto di vista della Resistenza uno "stato" palestinese provvisorio, smilitarizzato e futuro, senza confini delineati o specificati, non è uno stato. È un bantustan puro e semplice.
La realtà è che quando uno stato palestinese poteva costituire una prospettiva concreta, almeno vent'anni or sono, la comunità internazionale ha chiuso volentieri un occhio -e lo ha fatto per decenni - sul totale e riuscito sabotaggio del progetto da parte dello stato sionista. Oggi le circostanze sono molto cambiate: lo stato sionista si è spostato molto a destra ed è in preda a una passione escatologica per espandere il territorio che controlla sull'intera "Terra di Israele".
Gli Stati Uniti e l'Europa devono incolpare solo se stessi per il vicolo cieco in cui si sono cacciati. E una posizione politica come quella delineata da Biden sta chiaramente causando danni strategici incalcolabili agli Stati Uniti e ai loro compiacenti alleati europei.
Anche per quanto riguarda il Libano è bene essere chiari: lo stato sionista pretende dal Libano ben più che un cessate il fuoco reciproco. Non c'è alcuna garanzia, anche se si dovesse raggiungere un cessate il fuoco a Gaza come parte di un accordo globale per la fine della guerra, che Nasrallah accetti di ritirare tutte le sue forze dal confine con lo stato sionista o, viceversa, che lo stato sionista onori gli impegni.
E con gli Stati Uniti che per "soluzione" al problema palestinese intendono una improbabile entità palestinese provvisoria, disarmata e del tutto impotente incastonata all'interno di uno stato sionista dotato di ogni forza armata e che esercita "il pieno dominio della sicurezza dal fiume al mare", non sarebbe sorprendente se Hezbollah scegliesse piuttosto di perseguire il piano dell'Asse che punta a un post-sionismo sconfitto ed esausto. Il commentatore sionista Zvi Bar'el scrive:
"Anche se le ipotesi statunitensi dovessero diventare un piano operativo, non è ancora chiaro quale politica adotterà lo stato sionista per il Libano. Anche allontanando Hezbollah in modo che le cittadine dello stato sionista non siano più nel raggio d'azione dei suoi missili anticarro, non si elimina la minaccia di decine di migliaia di missili a medio e lungo raggio. L'equazione di deterrenza tra stato sionista e Hezbollah continuerà a determinare la realtà lungo il confine".
[L'attuale ipotesi operativa degli Stati Uniti, presentata dall'inviato speciale dell'Amministrazione Amos Hochstein nelle sue precedenti visite in Libano, "è che un accordo sulla definizione dei confini tra stato sionista e Libano porterà al riconoscimento definitivo e completo del confine internazionale, togliendo così a Hezbollah la base formale per giustificare la sua continua lotta contro lo stato sionista per liberare i territori libanesi occupati. Allo stesso tempo, consente al governo libanese di ordinare al proprio esercito di prendere posizione lungo il confine per affermare la propria sovranità sull'intero territorio ed esigere che le forze di Hezbollah si ritirino dalle zone di confine".
Si tratta soltanto di un altro proposito velleitario e fantasioso. E contiene un vizio di fondo: il piano operativo di Hochstein non include un accordo sulle fattorie di Sheba'a, ma solo sulla Linea Blu, il confine concordato nel 2000, ma che non è riconosciuto dal Libano come confine internazionale. Se la questione delle fattorie di Sheba'a non viene risolta, Hezbollah non andrà a vincolarsi a un accordo di demarcazione limitato e che ometta quella zona.
Dopo l'attacco di Hamas allo stato sionista del 7 ottobre ogni stratagemma, ogni protocollo tirato fuori da qualche armadio ammuffito dell'Ala Ovest e a cui gli Stati Uniti si sono aggrappati è fallito. Quella che doveva essere un'operazione militare limitata e compartimentata a Gaza da parte delle forze armate sioniste si è trasformata in una tempesta di fuoco regionale. Le portaerei inviate per dissuadere altri attori dal farsi coinvolgere hanno fallito per quanto riguarda gli Houthi; le basi statunitensi in Iraq e Siria sono diventate bersagli, e gli attacchi alle basi statunitensi si susseguono nonostante i tentativi degli Stati Uniti di sferrare "colpi" di deterrenza.
È chiaro che Netanyahu sta ignorando Biden e "sfidando il mondo", come testimoniano i titoli dei giornali di questa settimana:
"Sfidando Biden, Netanyahu raddoppia la posta nei piani per combattere a Rafah" (Wall Street Journal)
"Lo stato sionista mette alle strette Rafah, Netanyahu sfida il mondo" (Washington Post)
"Gli Stati Uniti non sanzioneranno lo stato sionista per l'operazione a Rafah che non rispetta i civili" (Politico)
"L'Egitto costruisce una cinta muraria al confine mentre incombe l'offensiva sionista; le autorità stanno facendo delimitare un'area nel deserto con muri di cemento come soluzione di emergenza per un possibile afflusso di rifugiati palestinesi" (Wall Street Journal)
Netanyahu ha promesso di andare avanti e il 14 febbraio ha detto che lo stato sionista avrebbe organizzato una "massiccia" operazione contro la città di Rafah, una volta che i residenti fossero stati "evacuati". I sionisti dicono esplicitamente che la Casa Bianca non si oppone al blitz di Rafah, a condizione che ai palestinesi sia data l'opportunità di "evacuare". Verso dove non si sa; intanto l'Egitto sta costruendo un campo profughi dal proprio lato del confine, con muri di cemento tutt'attorno...
A questo punto, tutti i vari problemi degli Stati Uniti -la polarizzazione politica, l'allargamento della guerra, i finanziamenti per le operazioni militari, l'alienazione tra gli elettori arabi degli swing-state e l'affossamento della credibilità percepita di Biden- cominciano ad alimentarsi e a rafforzarsi a vicenda. Quella che era nata come una questione di politica estera -la sconfitta di Hamas da parte dello stato sionista- è diventata una grave crisi interna.
La disapprovazione diffusa negli Stati Uniti verso la condotta bellica dello stato sionista sta alimentando la crescita di importanti movimenti di protesta. Chi può davvero credere che l'ennesimo viaggio di Blinken nella regione a questo punto potrà risolvere qualcosa, si chiede Malcom Kyeyune?
È difficile dire quale sarà la situazione nella regione tra un paio di mesi. Siamo entrati in un periodo di violenti rivolgimenti e le forze che stanno distruggendo il vecchio status quo si rafforzano a cascata reciprocamente.


martedì 20 febbraio 2024

Firenze, cantiere Esselunga in via Mariti

 

Il doppio passaggio zebrato - viale e controviale - è pericoloso anche per via delle macchine che vengono da lontano a fare la spesa nel bottegone nuovo, che occupa quasi tutto il pianterreno di casa mia. Le macchine arrivano di continuo, arronzano il marciapiede, si bloccano con stridore di freni, proprio dinanzi allo stretto varco fra la fossa dei picconatori e il passaggio zebrato, ne scendono uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone.
Il bottegone è una stanza enorme senza finestre, con le luci giallastre sempre accese a illuminare le cataste di scatole colorate. Dal soffitto cola una musica calcolata per l'effetto ipnotico, appesi al muro ci sono specchi tondi ad angolazione variabile e uno specialista, chiuso chissà dove, controlla che la gente si muova, compri e non rubi.
Entrando, ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merce, di prodotti. Vendono e comprano ogni cosa; i frequentatori hanno la pupilla dilatata, per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono, a tratti ti sbattono il carrettino sui lombi, e con gesti da macumbati raccattano scatole dalle cataste e le lasciano cadere nell'apposito scomparto. Nessuno dice una parola, tanto il discorso sarebbe coperto dalla musica e dal continuo scaracchiare delle calcolatrici.
Il bancone giù in fondo è quello delle carni. Dietro c'è una squadra di macellai e macellaie che spartono terga di bove, le affettano, le piazzano sul vassoino di cartone, le involgono nel cellofan e poi richiudono con un saldatore elettrico. Davanti al bancone sostano le donnette, ognuna ha in mano un vassoino di carne e lo guarda senza vederlo, lo tasta, lo rimette al suo posto, ne piglia un altro. La donnetta accanto a lei prende a sua volta il vassoino scartato, lo guarda, lo tasta, lo rimette al posto suo, e avanti. Nelle ore di punta il vassoino non fa nemmeno in tempo a ritornare sul bancone: appena visto e tastato, passa in mano a un'altra donna, percorre tutta la fila delle donnette chine come tanti polli a beccare in un pollaio modello. Poi ritorna indietro.
Sarebbe una grossa perdita di tempo, e di guadagno, ma ci sono degli specialisti in borghese che, alle spalle delle donnette ipnotizzate, provvedono di soppiatto a colmare fino al dovuto il carretto in attesa, oppure a spostarlo, in modo che i più solerti, sbagliandosi, stivino di merce anche il veicolo dei più tardivi, e tutti, alla fine, abbiano comprato pressappoco la stessa roba, e nella stessa quantità.
Continua la musica ipnotica e quando la gente è arrivata alla cassa, ormai paga automaticamente tutto quel che si ritrova a trascinare nel carretto. Gli emitori con automobile spesso prendono due carretti a testa e non se ne vanno finchè non li abbiano visti ben pieni.
La fila delle cassiere è sempre attiva ai calcolatori, e le dita saltabeccano di continuo sui tasti, come cavallette impazzite. In testa hanno un berrettino azzurro col nome del bottegone, non battono palpebra, fissano i numerini con le pupille dilatate, e ogni giorno hanno il visino più smunto, le occhiaie più bluastre, il colorito più terreo, il collo più vizzo, come tante tartarughette.
Ci sono anche giovinastri neri e meridionali, con scatole e appositi portacarichi, i quali trascinano fino alle auto la caterva degli acquisti, dodici bottiglie di acqua gazzosa, dieci pacchetti di gallettine, olive verdi col nocciolo e senza, gli assorbenti igienici per la signora, perché tanto anche 'sto mese ci sono stati attenti, un osso di plastica per il barboncino venti barattoli di pomodori (anzi di pomidoro dicono), un pelapatate americano brevettato, che si adopera anche con la sinistra, i grissini, e gli sfilatini, i salatini, gli stecchini, i moscardini e i tovagliolini di carta con le figure a fantasia, tanto spiritosi, tanto divertenti.
lo lo dico sempre, metteteci una catasta di libri, e accecati come sono comprerebbero anche quelli. Ho letto su un giornale specializzato che questo e l'agorà, il forum, la piazza dei nostri tempi, e forse è vero. Però non mi scordo che alla Svolta del Francese c'era già tutto questo, e anche di più.
Mi ricordo che il vecchio Lenzerini, al suo bottegone di Scarlino Scalo, teneva tutta questa roba e altra ancora, anche i cappelli teneva, i vasi da notte, il baccalà a mollo e i lumi a carburo. Ti preparava anche un cantuccio di pane col salame, il Lenzerini. Bastava chiederglielo, e intanto ti raccontava di quando suo nonno accompagnò Garibaldi a casa Guelfi, e lo vide riposarsi sotto il quercione, in vista di Cala Martina. Era con lui un bel giovane, che si faceva chiamare il capitano Leggèro, ma di certo doveva essere un nome finto.
"Professore, lasci stare, pagherà quest'altr'anno." Davanti al bottegone c'è uno spiazzo dove razzolavano le galline, e niente passaggio zebrato. Qui invece è doppio e pericoloso, viale e controviale dal cancello di casa mia all'edicola dei giornali.

Luciano Bianciardi, La vita agra. Milano, 1962.


La descrizione di Luciano Bianciardi riguarda uno dei primi bottegoni Esselunga a Milano.
Sessantadue anni dopo a Firenze nella zona di via Mariti la situazione dei bottegoni, di questo o di quell'altro padrone, è questa:
1. La Conad di via Mariti a 100 metri.
2. La Coop di Novoli a 400 metri.
3. la Conad via Circondaria a 200 metri.
4. L'Esselunga di via Galliano a 550 metri.
5. L'Esselunga di via Milanesi a 750 metri.
6. La Coop di piazza Leopoldo a 650 metri.
7. La Coop di via Carlo del Prete a 600 metri.
8. La Lidl di via Benedetto Dei.
L'articolo in link da Kelebeklerblog riporta interessanti informazioni anche su come si sia arrivati a permettere la costruzione di un bottegone Esselunga in via Mariti, dove il 16 febbraio 2024 il cedimento di una trave ha provocato la morte di cinque operai e il ferimento di altri tre.
Diversamente, Esselunga avrebbe subito perdite inammissibili nello scontro di civiltà contro i rossi senza dio delle Coop.

sabato 17 febbraio 2024

Firenze, propaganda elettorale a febbraio 2024

 

Diversi anni fa scrivemmo qualche considerazione sulle disavventure di un "occidentalista" ben vestito e nutrito ancor meglio.
Tra le altre cose, consideravamo che lo stato che occupa la penisola italiana era molto avanti nella costruzione di un clima mediatico e politico che lo rendeva identico
ad una volgare spaghetteria di provincia infarcita di cameriere in topless, in cui il "servizio d'ordine" si impossessa di quando in quando di un commensale scelto a caso e gli spara allegramente in testa dopo averlo spinto in un angolo appartato.
Uno dei principali e consapevolissimi responsabili di questa situazione si chiama Silvio Berlusconi.
Nel febbraio 2024 a Firenze sono comparse affissioni come quella nella foto.
Silvio Berlusconi è il tale a sinistra. Silvio Berlusconi presiede un partito.
Ah, Silvio Berlusconi è morto.
Da più di sei mesi.

martedì 13 febbraio 2024

Alastair Crooke - Il mondo sta girando

 


Traduzione da Strategic Culture, 12 febbraio 2024.

Gli Stati Uniti sono vicini alla guerra contro le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, un organismo di sicurezza statale composto da gruppi armati alcuni dei quali sono vicini all'Iran, ma che per lo più sono nazionalisti iracheni. Gli Stati Uniti hanno effettuato un attacco con un drone a Baghdad mercoledì 7 febbraio; nell'attacco sono rimasti uccisi tre membri delle forze Kataeb Hezbollah, tra cui un ufficiale superiore. Uno degli uccisi, al-Saadi, è l'effettivo di più alto grado morto in Iraq dopo l'attacco con i droni del 2020 ch uccise il comandante iracheno al-Muhandis e Qassem Soleimani.
L'obiettivo lascia sconcertati, perché Kataeb Hezbollah ha sospeso più di una settimana fa le sue operazioni militari contro gli Stati Uniti, su richiesta del governo iracheno. Un provvedimento che era stato ampiamente reso pubblico. Allora perché è stata uccisa questa figura di alto rilievo?
Gli sconvolgimenti tettonici spesso sono innescate da un unico evento eclatante, come l'ultimo granello di sabbia che sommato agli altri innesca lo scivolamento dando il via a una frana. Gli iracheni sono inferociti. Sono convinti che gli Stati Uniti violino in modo sconsiderato la loro sovranità, mostrando sdegnato disprezzo verso un Iraq che un tempo era una civiltà grandiosa e che è stato ridotto in rovina dalle guerre ameriKKKane. Sono state promesse ritorsioni rapide e massicce.
Basta una piccolezza perché succeda qualcosa di grave. Il governo iracheno potrebbe non essere in grado di tenere a bada le sue forze armate.
Gli Stati Uniti cercano di separare e compartimentare le questioni: Il blocco del Mar Rosso da parte di AnsarAllah è una cosa; gli attacchi alle basi statunitensi in Iraq e in Siria sono un'altra, che non ha nulla a che fare con la prima. Ma tutti sanno che questi distinguo sono artificiosi: il filo rosso che tiene insieme tutto quanto è Gaza. La Casa Bianca e lo stato sionista invece insistono nell'indicare questo filo nell'Iran. La Casa Bianca ha riflettuto bene, o l'ultimo omicidio vi è stato considerato come un "sacrificio" celebrato per placare gli "dei della guerra" nella Beltway, che chiedono a gran voce di bombardare l'Iran? Qualunque sia il motivo, il mondo gira. Si sono rimesse in movimento altre dinamiche, che saranno alimentate dall'attacco.
The Cradle evidenzia un cambiamento significativo:
"Ostacolando con successo l'attraversamento dello stretto di Bab al-Mandab da parte delle navi sioniste, il governo di Sanaa guidato da Ansarallah è emerso come una potente incarnazione della Resistenza in difesa del popolo palestinese; una causa profondamente popolare tra i vari gruppi della popolazione yemenita. La posizione di Sanaa è in netto contrasto con quella del governo filosaudita ed emiratino di Aden che, con orrore degli yemeniti, ha ben accolto gli attacchi delle forze statunitensi e britanniche il 12 gennaio".
"Gli attacchi aerei statunitensi e britannici hanno provocato alcune defezioni interne di peso... Alcune milizie yemenite precedentemente allineate con gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita sono passate ad Ansarallah... La disillusione nei confronti della coalizione avrà profonde implicazioni politiche e militari per lo Yemen, ridefinendo il quadro delle alleanze e facendo degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita due avversari nazionali". La Palestina continua a essere come una cartina di tornasole per tutta l'Asia occidentale e adesso anche per lo Yemen, smascherando coloro che rivendicano solo a parole il manto della giustizia e la solidarietà araba".
Defezioni tra i gruppi armati nello Yemen. Quale importanza hanno?
Gli Houthi e AnsarAllah sono diventati degli eroi in tutto il mondo islamico, basta guardare i media sociali. Gli Houthi sono diventati un mito: difendono i palestinesi mentre gli altri non lo fanno. Si stanno formando un loro seguito. La posizione "eroica" di AnsarAllah potrebbe portare all'estromissione dei combattenti per procura schierati dall'Occidente e quindi consentirgli di dominare le regioni dello Yemen in questo momento fuori dal suo controllo. Inoltre AnsarAllah si sta impadronendo dell'immaginario del mondo islamico, e questo fa preoccupare lo establishment arabo.
All'indomani dell'assassinio di al-Saadi, gli iracheni sono scesi in piazza a Baghdad scandendo lo slogan "Dio è grande, l'AmeriKKKa è il Grande Satana".
Non si creda che questa svolta sia sfuggita ad altri - allo Hashd al-Sha'abi iracheno, per esempio, ai palestinesi della Giordania, ai soldati che costituiscono il grosso dell'esercito egiziano o alle popolazioni del Golfo. Al giorno d'oggi ci sono in giro cinque miliardi di smartphone. La classe dirigente guarda i canali arabi e consulta (nervosamente) i media sociali. Essa teme che la rabbia contro la violazione del diritto internazionale da parte dell'Occidente possa esplodere senza che ci sia modo di contenerla: quanto varrà mai l'"ordine basato sulle regole", adesso che la Corte Internazionale di Giustizia ha messo in discussione la preminenza morale della cultura occidentale?
Lascia sorpresi l'inappropriatezza della politica statunitense che ha anche l'ardire di rivendicare il principio centrale della "strategia Biden" per risolvere la crisi a Gaza. La normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita e stato sionista è stata vista in Occidente come il principio fondante in nome del quale Netanyahu sarebbe stato costretto a rinunciare al suo mantra massimalista sul controllo della sicurezza dal fiume al mare, a pena di vedersi mettere da parte da qualche rivale politico per il quale l'"esca della normalizzazione" aveva il fascino di una probabile vittoria alle prossime elezioni.
Il portavoce di Biden è stato chiaro a questo proposito:
"[Noi] ... stiamo discutendo con lo stato sionista e l'Arabia Saudita... per cercare di andare avanti con un accordo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra stato sionista e Arabia Saudita. Insomma, stiamo discutendo di questo. Da ambo le parti, che sono disponibili a continuare con il dialogo, abbiamo avuto delle reazioni senz'altro positive".
Il governo saudita -forse irritato perché gli Stati Uniti sono ricorsi a un linguaggio così ingannevole- ha debitamente disconfermato gli assunti di Biden rilasciando una dichiarazione scritta in cui conferma senza mezzi termini che "non ci saranno relazioni diplomatiche con lo stato sionista a meno che non venga riconosciuto uno Stato palestinese indipendente sui confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e che l'aggressione sionista nella Striscia di Gaza cessi con il ritiro di tutte le forze di occupazione sioniste". In altre parole, il Regno è un sostenitore dell'iniziativa di pace dei paesi arabi del 2002.
Naturalmente, nessuno nello stato sionista potrebbe fare campagna elettorale partendo da una piattaforma del genere!
Ricordiamo come Tom Friedman ha illustrato il modo in cui la "Dottrina Biden" avrebbe dovuto essere integrata in un insieme coerente; in primo luogo, assumendo una "posizione forte e risoluta nei confronti dell'Iran", gli Stati Uniti avrebbero segnalato ai "nostri alleati arabi e musulmani che devono affrontare l'Iran in modo più aggressivo... che non possiamo più permettere all'Iran di cercare di cacciarci dalla regione, di portare all'estinzione lo stato sionista e di intimidire i nostri alleati arabi agendo attraverso i suoi combattenti per procura come Hamas, Hezbollah, gli Houthi e le milizie sciite in Iraq intanto che Tehran se ne sta tranquillamente a guardare e non paga alcuno scotto".
Il secondo filone era quello degli intrallazzi sauditi, che avrebbero inevitabilmente spianato la strada al terzo elemento rappresentato dalla "costituzione di una Autorità palestinese legittima e credibile come... buon vicino dello stato sionista...". Questo "coraggioso impegno degli Stati Uniti per uno Stato palestinese conferirebbe [a noi esecutivo Biden] la legittimità per agire contro l'Iran", prevedeva Friedman.
Siamo chiari: queste tre politiche non si sono fuse in un'unica dottrina: si sono messe a cadere come tessere di un domino. E questa caduta ha un motivo solo: la fondamentale decisione di appoggiare il ricorso a una violenza schiacciante contro società civile di Gaza da parte dello stato sionista, a prima vista allo scopo di sconfiggere Hamas. È stato questo a mettere la regione e gran parte del mondo contro gli Stati Uniti e l'Europa. Perché è successo? Perché nelle politiche statunitensi non è cambiato nulla. Anche stavolta la stessa prassi occidentale vecchia di decenni: minacce finanziarie, bombardamenti e violenza. E l'insistenza sull'unica e obbligatoria narrazione dello "stare dalla parte dello stato sionista", senza neanche discutere.
Il resto del mondo si è stancato di questa situazione; si è stancato persino persino di sfidarla.
Quindi, per dirla senza mezzi termini, lo stato sionista si è trovato davanti all'autodistruttiva incoerenza del sionismo: come fare per mantenere diritti speciali a favore degli ebrei in un territorio in cui esiste un numero approssimativamente uguale di non ebrei? Le vecchie soluzioni non funzionano più.
La destra, nello stato sionista, sostiene che si deve andare fino in fondo: o la va o la spacca. I sionisti dovrebbero correre il rischio di una guerra di più ampia portata, da cui potrebbero uscire vincitore o no, e a quel punto dire agli arabi di trasferirsi altrove, oppure abbandonare il sionismo ed essere loro a trasferirsi.
L'amministrazione Biden invece di aiutare lo stato sionista a prendere atto della verità ha eluso il dovere di costringerlo ad affrontare le contraddizioni del sionismo e ha preferito il ripristino dello status quo ante. Circa settantacinque anni dopo la fondazione dello stato sionista, come ha notato l'ex negoziatore sionista Daniel Levy,
"Siamo tornati alla solite chiacchiere tra Stati Uniti e stato sionista su "se non sia il caso di cambiare confezione al bantustan e gabellarlo come 'stato'".
Poteva andare altrimenti? Probabilmente no. Questa reazione viene dal Biden più profondo.
La triplice risposta degli Stati Uniti, fallimentare, ha paradossalmente facilitato lo scivolamento dello stato sionista verso destra (come dimostrano tutti i sondaggi recenti). In assenza di un accordo sugli ostaggi, mancando un qualche intrallazzo credibile ad opera dei sauditi e senza un qualsiasi verosimile percorso verso uno Stato palestinese, essa ha proprio aperto la strada perché il governo Netanyahu esca dal collasso della deterrenza ricorrendo a una condotta intransigente che gli assicuri una netta vittoria sulla resistenza palestinese, su Hezbollah e persino -spera- sull'Iran.
Nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto senza l'aiuto degli Stati Uniti. Ma Biden dove ha fissato il limite, al sostegno allo stato sionista in una guerra contro Hezbollah? E se il conflitto dovesse ampliarsi, sosterrebbe lo stato sionista anche in una guerra contro l'Iran? Dov'è questo limite?
L'incongruenza, che arriva in un momento in cui i piani occidentali in Ucraina stanno crollando, suggerisce che Biden potrebbe pensare di aver bisogno di una "grande vittoria", proprio come Netanyahu.